di Tommaso Esposito
Di primo acchito tutto sembra essere semplice, facile. Basta mettere insieme acqua, farina, lievito, sale e si fa l’impasto per la pizza. Nel disciplinare STG approvato dalla Unione Europea, ma anche in quello approvato dalle associazioni di pizzaioli più rappresentative come la A.P.N. Associazione Pizzaiuoli Napoletani presieduta da Sergio Miccù e la A.V.P.N. Associazione Verace Pizza Napoletana Presieduta da Antonio Pace, tutto sta scritto: qualità, quantità, proporzioni e tempi. La farina deve essere quella di tipo 0 o 00 e se ne deve usare intorno al kilo e mezzo per ogni litro d’acqua. Si può utilizzare il lievito di birra o quello naturale. Si fa l’impasto e si stagliano i panetti. Poi si lascia lievitare fino a dodici ore a temperatura ambiente. D’estate i tempi si accorciano. Si decide in base all’esperienza del pizzaiolo. Questa la teoria. Nella pratica non sempre è così. A Napoli e in Campania esistono migliaia di pizzerie e tantissimi pizzaiuoli. Se si fa un sondaggio ognuno di questi dirà che ha il proprio segreto per fare una pizza migliore.
Vediamo allora di capirci qualcosa, di vedere come in realtà stanno i fatti oggi che si sente parlare di pizza napoletana tradizionale, di pizza canotto e di pizza gourmet. Possiamo subito fare due grosse distinzioni. Da una parte ci sono i pizzaioli della tradizione pura, quelli che difendono una tecnica di impasto che ha caratterizzato almeno gli ultimi cento anni di storia della pizza a Napoli. In pratica usano soltanto farina di tipo 00, impastano la sera per la mattina o la mattina per la sera. Regolano sale e lievito a seconda della temperatura e del clima. Non usano temperatura controllata o frigorifero.
Dall’altra parte ci sono i cosiddetti innovatori. E fra di loro possiamo individuare alcuni filoni che segnano qualche significativa differenza. Ci sono pizzaioli che hanno cominciato semplicemente a ragionare sulle quantità di farina per litro d’acqua, aumentando la cosiddetta idratazione. Sono giunti a portarla fino al 70%. Altri pizzaioli hanno preferito cambiare il tipo di farina e si sono creati addirittura delle miscele personalizzate.
In questo caso hanno lavorato in collaborazione con il mugnaio scegliendo finanche la specie di grano tenero. Hanno poi addirittura invertito la sequenza tipica del procedimento di impasto alla napoletana che si avvia con l’acqua. Hanno, cioè, cominciato a miscelare le diverse farine nella madia o nella impastatrice per ossigenarle e per diluirle successivamente fino all’idratazione scelta. Altri pizzaioli hanno dismesso il lievito di birra e sono ritornati alla pasta di riporto, che peraltro non è stata mai abbandonata da pizzaioli centenari come i Condurro, o al lievito naturale o alla biga. Non disdegnano il frigorifero per la maturazione enzimatica. Altri ancora usano tecniche come quella della autolisi, lasciando, cioè, la farina in ammollo per un certo periodo di tempo prima di continuare con il procedimento tradizionale.
Insomma il mondo della pizza sta cambiando.Resta però un’unica certezza. Sia la tradizione che la creatività hanno codificato una pizza che si caratterizza per la grande scioglievolezza e leggerezza dell’impasto dopo la cottura. Insomma se in finale non ci si imbatte in quel boccone unico e goloso non è pizza napoletana.
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