di Giustino Catalano*
Spesso la diffusione di un prodotto è data dalla sua replicabilità in qualsiasi condizione.
Così la pizza napoletana, quella con un cornicione pronunciato, morbida e ripiegabile su se stessa nella classica forma a “libretto”, trova i suoi limiti alla sua replicabilità e nella possibilità di essere replicata in maniera identica in città e luoghi dove l’uso del tradizionalissimo forno a legna non è possibile o per normative vigenti o per difficoltà nel reperire fornitori di legna idonea.
Sull’onda di questa problematica sono nate differenti scuole di pensiero e posizioni.
C’è chi afferma che l’innovazione, se valida, non andrebbe esclusa come soluzione e chi, totalmente su posizioni contrarie, si attesta sul fronte del “senza non si può fare”.
A giocare un ruolo determinante, tra le posizioni dei primi e quelle dei secondi, non compaiono però mai le conclusioni tecniche e tecnologiche che comparate con quelle organolettiche abbiano visioni più aperte ma solo, purtroppo, operazioni di nostalgia che poco giovano al lancio definitivo, a livello planetario, della pizza napoletana, e favoriscono sempre più il fiorire di una diffusione della pizza, solo alcune volte fatta benissimo, come prodotto in se.
In quest’ottica i meglio organizzati, gli americani, diffondono attraverso i propri Pizza Hut e Sbarro’s prodotti che nulla hanno a che vedere né con la pizza in generale né, tantomeno, con quella napoletana.
Che la pizza sia un patrimonio tutto partenopeo da diffondere meglio che si possa è questione fuori da ogni discussione e che la sua difesa come preparazione tradizionale con oltre 500 anni di storia vada fatta con un’azione di concerto e rispetto delle regole è altrettanto indubbio. Va però detto che se un’innovazione può aiutare detta diffusione non andrebbe osservata con un occhio da “Sacerdote medioevale” ma con una visione più attenta e scientifica.
Uno degli elementi più nel vivo della discussione ultimamente è il forno nel quale avviene la cottura. I tradizionalisti rinnegano, spesso aprioristicamente, qualsiasi uso alternativo che non contempli quello del classico forno a legna. Gli innovatori propongono soluzioni alternative.
Vediamo, quindi, come sono fatti i singoli forni, ossia quelli a legna, quelli a gas e quelli elettrici, premettendo qui che per elettrici si intendono i forni che hanno la stessa struttura e dinamica termica dei forni tradizionali e non i classici “loculi” parallepipeidali con sportello anteriore ai quali siamo abituati da qualche decennio, che sono idonei di sicuro per pizze in teglia e altri prodotti similari.
Prima di entrare nel vivo della discussione è bene, però, che si facciano delle precisazioni di ordine fisico e di termodinamica senza delle quali la disamina resterebbe vuota e inutile.
- E’ dato incontrovertibile e certo che 1 Caloria (una delle unità di misura dell’energia prodotta assieme ai Joule – e ben distinta dai Watt che sono la misura della potenza) cuoce una pizza in egual maniera sia che venga prodotta con la legna, con il gas o con l’energia elettrica. Diversa è la considerazione, poi, di quanto combustibile (legna, gas o elettricità) occorra per produrre quella caloria.
- E’, parimenti, incontrovertibile che la combustione avvenga attraverso un fenomeno di ossidoriduzione “triangolare” nel quale il combustibile (legna o gas) si alimenta grazie all’ossigeno direttamente e al calore prodotto indirettamente. In pratica l’ossigeno che entra attraverso la bocca del forno incontra la legna o il gas dove si è innescata la fiamma e lo alimenta (se chiudiamo la bocca d’ingresso del forno il fuoco si spegne perché manca l’ossigeno). Del pari il calore prodotto dalla fiamma aiuta a “conservare” la combustione fintanto che l’ossigeno entra nel forno. Nei forni elettrici la combustione avviene altrove, ossia presso le centrali elettriche (a carbone, idroelettriche, eoliche, nucleari, ecc) e viene solo convogliata l’energia attraverso trasformatori (centrali di trasformazione e centraline di smistamento e misurazione di potenza) nella rete elettrica di distribuzione.
- L’alimentazione dei forni a legna e a gas è data dall’aria che entra dalla bocca del forno e in un ricircolo interno alla campana del forno fuoriesce dal camino dello stesso. Tale ricircolo avviene in base sempre alle leggi della termodinamica in base alle quali l’aria fredda (più pesante della calda) entra nella base della bocca del forno e qui incontra l’aria calda che è più leggera della fredda. In sintesi l’aria fredda occupa SEMPRE lo spazio che va dalla base del forno sino a 3-5 centimetri di altezza ed è sovrastata per il restante spazio dall’aria calda. Detta spinta ha carattere circolare antiorario. Dalla bocca del forno alla bocca del forno ma con temperature differenti e diverse a seconda della posizione dell’aria nel suo ricircolo legato al “tiraggio” (ossia la capacità di espellere l’aria calda all’esterno attraverso il camino del forno) del forno.
- Il calore delle pareti del forno, base e cielo, non è determinato dal calore della combustione direttamente ma dalla capacità di “conduzione” dei materiali adoperati per la costruzione del forno e dagli isolanti posti tra questi e le parti del forno esterne ad esso onde far sì che il “delta” termico (ossia la differenza tra la temperatura esterna e quella interna) crei la minor dissipazione di calore possibile e ne renda possibile la sua conservazione.
Detto ciò vediamo nel dettaglio come sono fatti i singoli forni e le relative problematiche.
Il forno a legna tradizionale ha una struttura prevalentemente in mattoni refrattari e malta cementizia di ampio spessore, a forma di cupola, che sovrasta il piano di cottura in mattoni refrattari “biscotto di Sorrento”, prodotto da vecchie fornaci artigianalmente.
La curvatura interna della volta è sapientemente eseguita per far “scivolare” la fiamma ed il calore, prodotti dalla combustione della legna, che aggrediscono la pizza prevalentemente dall’alto. Il suo forte spessore e l’uso del mattone refrattario sono finalizzati al massimo mantenimento del calore.
La temperatura prevista dal disciplinare dell’AVPN per la cottura della pizza napoletana è di 430°C circa al suolo e 485°C circa alla volta. In queste condizioni, difficili da mantenere costantemente, la temperatura media dell’aria in camera dovrebbe oscillare intorno ai 440/450°C.
Problematiche e vantaggi:
- almeno 1/3 della camera è impegnata dalla legna
- la fuliggine prodotta dalla combustione deve essere smaltita da appositi abbattitori e i fumi canalizzati verso l’alto
- la fonte di calore localizzata su di un lato costringe l’operatore a frequenti spostamenti e rotazioni della pizza per evitare che bruci
- la costruzione si traduce in un peso che è tra i 2000/3000 kg.
- il controllo della temperatura in camera è affidato esclusivamente alla capacità e sapienza del fornaio di rilevarla al tatto o con un termometro a raggio laser e regolarla in base ad una perizia propria acquisita in anni di lavoro ed esperienza
- finchè è alimentato con la legna non si ferma mai.
Il forno a gas si appropria della struttura muraria del tradizionale forno.
Non avendo però la potenza del calore della brace, circa 850°C, non riesce a mantenere in camera di cottura le temperature richieste, sia quella dell’aria sia quella del suolo. Questo, infatti, è caldo, nel forno a legna, non solo per il calore che lo sovrasta, ma anche per conduzione da quello della massa di brace che sosta su 1/3 del suolo.
Ne consegue che la pizza, cuocendo a temperature inferiori, resta nel forno più tempo, perde troppa umidità e, di conseguenza, anche la morbidezza che, oltre a darle la caratteristica unicità del prodotto verace, consente che venga piegata e arrotolata su se stessa più volte, senza che si rompa.
Ne consegue, ancora, che dopo un certo numero di cotture, la temperatura al suolo va via via diminuendo, lasciando il prodotto non cotto nella sua parte sottostante. Impossibile farla aumentare se non con prolungata inattività o innalzando l’erogazione della quantità di gas (combustibile).
Problematiche e vantaggi:
- almeno 1/3 della camera è impegnata dai bruciatori
- il gas, bruciando, produce scorie di varia natura che sono inquinanti e vanno canalizzate in alto
- medesime conseguenze che si riscontrano nel forno a legna per la localizzazione a dx o a sx della fonte di
calore (bruciatore)
- il “nerofumo” prodotto dalla fiamma si deposita sulle pareti interne al forno e può cadere sulla pizza nelle fasi di raffreddamento o di perdita di temperatura. Inutile specificare che è altamente nocivo.
- medesimo peso del forno
- maggior tempo di cottura di un forno a legna
- impossibilità a sostenere ritmi di lavoro intensi a causa dei crolli di temperatura cui va soggetto nelle lavorazioni intense e prolungate come quelle delle pizzerie partenopee accorsate e abituate a sfornare il migliaio di pizze giornaliere
- arriva a temperatura rapidamente ma se manca il gas o la temperatura scende si ferma o impiega molto tempo a risalire richiedendo per abbreviare i tempi un’erogazione di gas maggiore.
- richiede perizia da parte di chi lo adopera per la gestione del calore
Tra i forni elettrici a campana ve ne sono di molti modelli. Con piano forno rotante, con resistenze nei mattoni refrattari, con resistenze esterne, a “filo nudo” ecc.
In un panorama così vasto ho chiesto a due pizzaioli molto conosciuti che hanno adoperato sia il forno a legna che quello elettrico. Da un lato Franco Pepe che cuoce da sempre le sue pizze in forno a legna ed ha avuto la possibilità di lavorare su alcuni forni elettrici durante l’evento delle Strade della Mozzarella a Parigi (Salvatore Salvo, presente anch’egli alla stessa manifestazione mi aveva dato pari riscontri) e dall’altro Gennaro Nasti che , formatosi pizzaiolo sui forni a legna, opera a Parigi con forno elettrico a causa delle difficoltà legislative locali nel poter adoperare un forno a legna.
Tutti, tra le varie tipologie adoperate mi hanno indicato, con grande ammirazione ed entusiasmo per i risultati, il forno elettrico di Izzo Forni a Napoli.
Pertanto, prendendo spunto da tali indicazioni date da operatori del settore di rilievo ho scelto per la disamina in parola lo “Scugnizzonapoletano” (questo il nome del forno indicatomi) della Izzo Forni. Un grazie flash a Peppe Krauss (proprietario della Izzo Forni) per avermi inviato tutte le caratteristiche tecniche del suo forno).
Lo “scugnizzonapoletano” ha queste caratteristiche e problematiche
- in camera ha costantemente l’aria a temperatura tra i 450°C e i 480°C nonostante lavori continuamente a bocca aperta. Il controllo della temperatura è affidato ad un sensore elettronico con misurazione al grado
- il calore è prodotto per l’80% dall’alto, come in un forno a legna. L’infrarosso, lo stesso emanato dalla fiamma o dalla brace, è dato dalle resistenze in filo nudo di nichelcromo portate a rosso
- la pizza poggia sul medesimo “biscotto di Sorrento”
- tutta la superficie della camera è adoperabile
- durante il lavoro, eventualmente copioso, il piano di cottura viene mantenuto caldo da fonte di calore sotto di esso, regolabile a piacimento in funzione della quantità di pizze sono cotte
- non produce residui di combustione
- il modello più grande, 9 pizze diametro 33, pesa appena 880 kg.
- è su ruote nascoste che consentono facile movimentazione e non è struttura fissa.
- in caso di black out prolungato garantisce 10 – 15 minuti di temperatura adeguata alla cottura della pizza napoletana. Su tali considerazioni è sconsigliato in piccoli centri, come quello nel quale vivo, dove un black out può anche protrarsi per ore e offre il rischio “aperto” che un problema di natura elettronica possa impedire qualsiasi lavoro non essendo possibile alcuna manovra alternativa (un po’ come accade per le moderne auto con l’accensione a pulsante. Se non c’è elettricità l’auto non parte, nemmeno a spinta!)
Detto ciò se mi dichiarassi a favore di una totale sostituzione del forno a legna con il forno elettrico contravverrei ad una mia regola personale che è quella della conservazione e diffusione delle “sapienze” storiche e tradizionali. In pratica “forno a legna forever!”, ma devo dire che la soluzione elettrica potrebbe a mio avviso essere quella più valida sul mercato al momento per una maggior diffusione della pizza napoletana fuori dei nostri confini o in città o luoghi nei quali l’ottenimento di autorizzazioni all’uso del forno a legna è impossibile burocraticamente.
In merito ai costi di gestione, escluso il forno a gas che ha quelli superiori, il fono elettrico (900 Kw circa ora = 1,80 €. Circa all’ora) risulta di poco più economico di quello a legna (costo legna di faggio buona con basso grado di umidità, certificata, oscillante tra 12-4 euro e 16-17 euro quintale a seconda della stagione) con un consumo giornaliero che va dai 100 a 140 kg.
In ultimo, il convincimento che il forno a legna dia al prodotto in cottura un naturale odore di brace è solo pura suggestione. E non è mia affermazione ma dato fisico e chimico incontrovertibile anch’esso come le Leggi che regolano questi due campi della scienza.
Il continuo moto convettivo dell’aria in camera di cottura, quella fredda in entrata e quella calda in uscita avviene con la prima che, essendo fisicamente più pesante, si adagia come “un materassino” di circa 3 – 4 cm. sul suolo, spingendo quella calda, che fuoriesce dalla parte alta della bocca. Tale materassino d’aria più fredda, per sua natura enormemente più densa dell’aria calda, è impenetrabile dall’ odore e dal fumo prodotto dalla legna, né anche se ciò fosse possibile l’esposizione di un minuto o poco più sarebbe un tempo sufficiente a trasferire il sentore di legna o fumo al prodotto pizza.
Del resto, è su ciò sono pronto a scommetterci qualsiasi cosa, la pizza in cottura ha una temperatura esterna che va dai 45° ai 68-70° mentre il fumo non supera i 28-30° (avete mai provato ad afferrare il fumo? VI scottate se lo fate? ;)). Sulla scorta di tali dati è parimenti impossibile che un corpo freddo penetri un corpo caldo. Ergo il sentore di fumo e legna bruciata non è dato assolutamente dalla combustione ma solo dal fondo del forno sporco (cosa che da disciplinare non deve accadere).
Se non siete convinti vi suggerisco un test. Fate bruciare nel forno qualcosa che produca fumo. Questo, con movimento a spirale, lambisce la superficie superiore dell’aria più fredda scivolandoci su senza penetrarla, lasciando la pizza non toccata né da fumo né da odori.
Del resto, giusto per chiudere ogni possibile obiezione, si affumicano prodotti freddi o a temperatura ambiente (salmone, mozzarella di bufala, ecc) con esposizioni dirette e prolungate, in ambienti chiusi o sottoposti a passaggio di fumo diretto e obbligato al fumo e non con passaggi di poco più di un minuto. Se metteste la pizza nella canna fumaria il discorso non farebbe una piega.
In conclusione, per quanto mi riguarda, convengo che la pizza napoletana, se possibile vada fatta nel forno a legna ed auspico una scuola di formazione per fornai (mestiere in via di estinzione). Ove però ciò non sia possibile la cottura in forno elettrico è la soluzione da adoperare. Posso essere d’accordo sulla posizione del mio amico dott. Tommaso Esposito che vada specificato Pizza fatta con forno elettrico ma aborro le posizioni di diniego tout court o quelle fondate su dati sentimentali e di totale diniego di quelli scientifici. Basta “sciamani”, “stregoni”, nostalgici e illusionisti per piacere!
*consulente gastronomico
Dai un'occhiata anche a:
- Food e comunicazione. Facciamo un po’ il punto in Italia
- Marco Contursi: perché McDonald’s funziona?
- Il mercato dei vini cambia, il rosato resiste
- Pizza e chef, piccolo catalogo sui rapporti fra pizzaioli e cuochi
- Ciao Don Raffaè. Marco Contursi ricorda Raffaele Vitale
- Vinitaly and The City: Calabria in Wine a Sibari, il bilancio di uno dei protagonisti
- Rivoluzione Gambero Rosso: Lorenzo Ruggeri, Valentina Marino e Annalisa Zordan
- Trattorie da incubo. Si può dare di più…ma il cane è nobile