Oggi va molto di moda, c’è un ritorno direi pazzesco e decisamente pericoloso per i ristoranti gourmet e soprattutto per quelli di fascia media. La crisi elimina il “vorrei ma non posso” e fa molto chic rientrare nei ranghi: del resto la parola d’ordine della critica è semplicità, genuinità.
A me piace il ristorante di lusso quanto la rosticceria fetente, il tradizionale e il molecolare, il Nord e il Sud. Ho mangiato con golosità da Ducasse come nelle trattorie di Sanaa nello Yemen. Tutto, insomma, purché abbia coerenza stilistica, comportamentale e di contenuti.
Allora vediamo quando il gemelli che è in me decide di dire basta a scomposizioni e destrutturazioni per sedersi in osteria. Cosa è, insomma, per me l’osteria oggi?
1-Il conto
Già, proprio quello. Partiamo da qui perché è questa la prima cosa che si pensa. Non può e non deve superare i 35 euro, meglio se oscilla tra i 25 e i 30. La sera massimo 40. Deve cioé riportarmi alla condizioni di quando, ragazzo, non guadagnavo e gli sfizi me li pagava il Quintino Sella di casa, mia madre, con una paghetta settimanale che non seguiva l’inflazione, all’epoca a due cifre. Tra maschietti si pagava alla romana, ma se c’era una ragazza il conto raddoppiava sempre. Nonostante ciò uscivi sostenibile ancora con i soldi per la miscela del Ciao.
Ed quello che bisogna fare ancora oggi, uscire con la sensazione di non aver perso soldi, ma solo di aver speso il giusto, poco più di un take away.
2-il vino
3-L’acqua
Deve essere rigorosamente di rubinetto. Quella nelle bottiglie conviene berla solo quando si è in viaggio in altri paesi.
4-Il pane
Voglio uno o al massimo due tipi. Se sto al Sud, per esempio in Puglia o nel Sannio, anche taralli. Se in Piemonte grissini artigianali.
5-L’hotellerie
Qui ci deve essere il secondo grande stacco con il passato, come sul vino. No alle tovaglie a quadratoni, meglio il bianco anche qui. Buone posate e soprattutto bicchieri adatti al vino. Senza eccedere, ma comunque sempre lontani dai nanerottoli del passato (grande per l’acqua e piccolo per il vino).
6-Il menu
Un paio di antipasti, due o tre primi di cui una zuppa o minestra che dir si voglia, un paio di secondi. Un dolce, la frutta. Le osterie seguivano la calendarizzazione settimanale e stagionale familiare ed è bene che sia così. Non chiedo il chilometro zero anche perché nelle sue forme esasperate mi intrisisce e/o mi insospettisce, ma che non si vada oltre i prodotti dell’area geografica di riferimento della clientela quotidiana.
7-Le ricette
Della tradizione orale così come si è stratificata nel corso degli ultimi decenni. Ma è essenziale che sia rivisitata nella forma, nelle quantità e nelle presentazioni. Ciò che distingue la banale osteria da una con un guizzo in più è proprio questo. Dunque non mera riproposizione del passato, ma anche un piccolo scarto, un quadro rovesciato. Diciamo un dieci per cento di creatività e il resto modernità di presentazioni. Ma sempre con aderenza papillosa all’era pre-omogeneizzati possibilmente.
8-No
Via gli antipasti al tavolo o al bancone che trasforma i piatti in raccolta indifferenziata. Alla fine che cavolo ci vuole a saltare due broccoli?
9-Servizio
Confidenziale, personalizzato. Mai rigido e ingessato. Narrante possibilmente: il vero oste è come il barbiere o il parrucchiere, deve sapere tutto di tutti. O almeno fare finta.
10-Ambiente
Caldo, vero, espressivo. Deve essere aperta a pranzo e a cena, preferibilmente chiusa nei festivi.
Oggi l’osteria è come l’I-pad, qualcosa a metà MacAir e I-Phone. Forse non sopravviverà al cambiamento di abitudini in corso e tra dieci anni avremo anche in Italia o solo luoghi per pasti veloci in piedi o ristoranti gourmet. Chissà. Ma qualcosa che richiami la profonda e vasta tradizione del nostro Paese io credo esisterà sempre, questa è la grande forza di una filiera che è cambiata ma che si mantiene sempre viva e attuale.
Dieci esempi di osterie da manuale
Al Convento, Cetara
Vico Equense, il Cellaio di Don Gennaro
San Giovanni in Persiceto, Mirasole
Imola, Osteria del Vicolo Nuovo
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