Esistono leggi non scritte che si tramandano in forza di una tradizione orale, delle fake news che non hanno alcun riscontro con la realtà. Una di queste è che l’unica cosa rossa che fa figo in una cucina d’autore è la carne. La cosa sconvolgente è che questa regola trionfa soprattutto in Italia e in Campania dove tanti cuochi che aspirano alla stella, per dimostrare di non essere provinciali, evitano di proporre la pasta secca e il pomodoro nel menu.
Ossia i due simboli dell’Italia a tavola come viene percepita all’Estero.
Non sono mancate alcune eccezioni importanti, ci riferiamo al famoso Vesuvio di Alfonso Iaccarino o al risotto al pomodoro cuore di bue di Gennaro Esposito, ma anche a quello dei Costardi, o al lavoro di cuochi come Peppe Guida e Mauro Uliassi che tanto hanno spinto sul pomodoro. Nonostante queste brillanti eccezioni, scorrendo le carte degli stellati non è sempre facile trovare il pomodoro, nonostante la qualità sia migliorata moltissimo negli ultimi anni. Un esempio lampante è proprio il ristorante aperto da Ducasse all’Hotel Romeo a Napoli dove la pasta è presentata con una forchettata all’inizio, una sorta di amuse bouche, e in tutto il menu non si trova traccia di pomodoro. Non è paradossale per uno cuoco importante come lui che ha aperto all’uso dell’olio d’oliva come elemento caratterizzante della cucina mediterranea?
La cosa incredibile è che, a partire dal ‘600, quando si chiamava “salsa spagnola”, il pomodoro è entrato con prepotenza in cucina perchè è un acidificante naturale come il limone che rende possibile mangiare meglio tante cose, per esempio la pizza e gli stessi maccheroni. Cosa sarebbe una parmigiana di melanzane senza pomodoro?
Su questo tema negli scorsi anni una serie di cuochi di alta cucina, a cominciare dal basco Josean Alia alle Strade della Mozzarella, hanno iniziato a lavorare sul pomodoro, a Mosca era considerato un piatto di lusso in uno dei ristoranti più in voga, dal Portogallo alla Danimarca, in tanti si sono cimentati giocando sulle consistente e le varianti delle cultivar.
Da dove nasce questa sottovalutazione diffusa?
In primo luogo da una leggenda metropolitana messa in giro da parte della critica del Nord secondo a quale l’uso del pomodoro era eccessivo nella tradizione meridionale, tesi sposata all’epoca dallo stesso Vissani. Quindi molti per prendere la stella pensarono che bisognasse eliminare questo ingrediente nel menu e questa narrazione è ancora presente in modo inconscio in tanti cuochi. Il secondo motivo è un provincialismo rovesciato, in poche parole per dimostrare di non essere confinati nel proprio campanile, si cerca la modernità usando spezie e prodotti venuti da lontano, negli ultimi tempi soprattutto dal Giappone.
Niente di male ad essere inclusivi, per carità. Ma da qui alla “sostituzione etnica” per usare una espressione politica, dei piatti locali con quelli esotici ce ne corre con il rischio di perdere l’identità. Alla fine, se vengo a mangiare in un ristorante italiano mi devo aspettare l’attenzione agli ingredienti tradizionali.
Si tratta di una regola basica che speriamo venga compresa sempre di più da parte di chi si dedica a questo lavoro puntando sulla felicità dei clienti piuttosto che alla coltivazione del proprio ego.
La cucina d’autore non è astrattismo, ma capacità di usare la tradizione come un trampolino di lancio. Se non si usano prodotti che alla gente piacciono, perché meravigliarsi se questi ristoranti poi restano vuoti e faticano a far quadrare i conti?
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