di Giulia Gavagnin
Combal Zero di Davide Scabin. Otto piatti nudi, per demolire un ventennio di cucina creativa, progressiva, destrutturata, vivisezionata, guardata attraverso gli occhi del voyeur. “Up and down 2018” – sottotitolo “Viaggio verso Atavica” (fossimo negli anni Settanta a cospetto di un cantautore anziché un cuoco, il titolo sarebbe “Up and Down II” scritto nero su bianco) è nient’altro che l’enciclopedia breve di una lunga stagione al crepuscolo e, forse, il germe di un nuovo inizio.
Senza onanismi, muffe, fermentazioni. Né, ovviamente, gli inutili orpelli: schiume, germogli, fiorellini colorati. Nulla che possa ingentilire questa versione 1.0 del bombarolo, quello che –parole sue- ha sempre “pagato per tutti”. A Davide Scabin attualmente poco importa essere quello che paga, oggi veste solo il bianco e il nero, elimina qualsiasi sfumatura di grigio e consegna l’ibrido fertile che spazza via almeno tre lustri di chiacchiere sulla cucina contemporanea.
Invero, paga il prezzo: destruttura anche se stesso. Finita l’epoca della molecolare, cioè della scienza che invade il mondo dei fornelli, questo è il tempo della restaurazione, del “vecchissimo” (non dell’antico) che si spaccia per nuovo. Giustappunto: le fermentazioni, i germogli, il foraging.
Combal.Zero di Davide Scabin
Cose da età della pietra, che con la scienza non hanno nulla a che vedere. E allora cosa fa Scabin? Come di consueto, per non aderire né all’una né all’altra corrente, fa di testa sua: disconosce sia questa che quella. Consegna una cucina moderna, diretta, quasi abrasiva nelle sue tracce enciclopediche. Ancora con la formula “Up and down” che, però, a differenza della versione 2017 si spoglia di qualsiasi elemento decorativo per non distogliere l’attenzione dall’obiettivo primario, che è il risveglio della memoria gustativa primordiale. Una lectio magistralis, più che un menu contemporaneo. La palingenesi inizia con “Pechino-Parigi”, una sequenza di pesci e molluschi al vapore che sembrano usciti dalla cucina zen di Jeon Kwang, la monaca buddista divenuta famosa grazie alla serie Chef’s Table.
Non sembra lo stesso chef che ha inventato il Cyber- Eggs, l’opera d’arte seriale che aveva trasformato l’uovo in installazione edibile. Piuttosto, sembra che Scabin, dalla serialità di Fontana sia approdato a Kounellis, maestro dell’arte povera. Il piatto, però, non è finito qui. Viene aggiunta una salsa, un concentrato di teste, code, carapaci di pesci e crostacei, che strappa una citazione ovvia: “c’est la sauce qui fait le poisson”. Il piatto cambia forma e sostanza, diventa “la bouillabaisse” supportata solo dalla magniloquenza della salsa. Il ritorno a un’epoca pre-bocusiana è apparente ma significativo: il tema principale è sempre lo stesso, la salsa è la potenziale, infinita variazione, come nel Bolero di Ravel o meglio, in quello di Frank Zappa. L’altro piatto topico del menu è l’arci-nota “Fassona al camino”, della quale molto si è scritto e mai abbastanza lodato. Nasce nel 2008, a oggi è la forma insuperata della cotoletta nel suo rigore sabaudo.
E’ l’apice, ma anche la sponda per un altro piatto tagliente che arriverà in seguito, la gallina sui carboni.
Nel frattempo, sopraggiunge una tazza di modernariato che è un up and down nell’up and down: una coltre poco invitante di amido nasconde un roboante risotto ai funghi, di quelli che avevamo dimenticato o forse mai sperimentato prima.
Il risotto del bastiancontrario, racchiuso ed ottuso nella tazza, non (e)steso nell’intera superficie di un enorme piatto Villeroy & Boch, come in uso presso i più. Il senso del contrasto gustativo riemerge nella chitarrina al foie-gras, ostrica e cocco: tre ingredienti che messi nelle mani di un cuoco diverso da Scabin diventerebbero un potenziale orrore gastronomico e invece sfidano l’ospite a testare il senso per la persistenza dei sapori.
Sono solo passaggi intermedi nel percorso verso il leit-motiv: la gallina sui carboni, con un nudo brodo concentrato, la foglia del cappero e il germoglio dei piselli. Nella ricerca dell’affumicatura sui carboni ardenti c’è un eco di Francis Mallmann, che ritrovò la natura delle cose dopo un lungo peregrinare attraverso le tortuose strade della scuola transalpina: davvero è questa la strada, il parricidio dei Bocuse e dei Robuchon? Mentre ce lo chiediamo dubbiosi, giunge un inaspettato “doppio falso di Trota”, una sorta di De Chirico che copia se stesso e si vende come “the greatest art swindle”.
Un gioco spiazzante che non riveliamo in questa sede, una zattera verso la fine del percorso, con “Mele e Malaga” e “Soufflè Glace al Grand Marnier, fonduta di Guanaja, Mostarda e Yuzu”, giocose riletture di dessert appena vintage.
Combal.Zero di Davide Scabin
Poco appariscente, squadrato, asciutto. All’apparenza è uno Scabin inconsueto, sempre più solo sulla sommità del castello di Rivoli, sotto un cielo senza stelle. In realtà questo percorso è iniziato almeno dieci anni fa, quando ai packaging da puro food-design che tanto avevano agitato pubblico e critica, il “cuoco pensante” (parole sue) ha sostituito solo stoviglie bianche, al centro la riscrittura della cucina sabauda vs. la cucina langarolo-contadina. Non a caso, l’inizio del nuovo corso è incarnato proprio dalla fassona al camino, inserita di default in questo menu. “Viaggio verso Atavica” è un universo monolitico che potrebbe rappresentare un nuovo inizio, non solo per Scabin. Il particolare che trasforma l’essenziale, un messaggio diretto e affilato che lascia fuori dalla porta il decorativismo da food-porn. Al termine del percorso, però, a instillarci il germe del dubbio, giunge la Voce del Padrone: “Guardateli questi piatti, osservate quanto sono brutti: quasi inguardabili”, ci dice sogghignando. Che ci abbia presi in giro? Forse, nonostante tutto questo dissertare, ci troviamo di fronte all’ultima, ennesima provocazione dell’incorreggibile Davide Scabin. Genio e regolatezza :-)
Combal.Zero di Davide Scabin
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