di Carmen Autuori
La pasta ripiena per eccellenza della tradizione gastronomica meridionale è il raviolo. Fino agli anni Cinquanta tortellini, agnolotti e simili erano pressoché sconosciuti, a parte poche eccezioni dovute ai flussi migratori verso il nord Italia che, di ritorno alle loro terre d’origine, portavano queste novità gastronomiche.
Così, non appena l’aria diventa più fresca, eccoli apparire di sulla tavola della domenica, su quella delle feste e in particolar modo su quella di Carnevale dove si pone, come altrettanto gustosa alternativa alla canonica lasagna.
Come la maggior parte dei nostri piatti anche il raviolo ha una sua storia che parte da lontano e precisamente dalla tradizione gastronomica dell’antica Roma. L’autore in questione era Marco Gavio Apicio, importante gastronomo dell’epoca che, in una delle sue specialità, la torta di Apicio, parla di patinam apicianam sic facies, una sorta di antenato del raviolo così come lo conosciamo oggi.
Facendo un balzo in avanti, nel Medioevo, tra il XII e il XIII secolo, è Genova il luogo in cui il prodotto ha una maggiore diffusione. Il nome è ancora al centro di diverse interpretazioni. C’è chi ritiene prenda spunto da “rabiola” (piccola rapa); chi invece sostiene che il termine sia dovuto al concentrato aggrovigliato del ripieno (rovigliolo), ma il segreto del suo nome potrebbe celarsi dietro ad un cognome, Ravioli, che è quello del primo cuoco a produrre questo formato a Gavi Ligure,all’ epoca sotto il controllo della Repubblica di Genova. Una tale specialità non poteva restare nei ristretti confini regionali, così circa un secolo dopo, come si evince da “Cronaca di Fra Salimbene Parmigiano, dell’Ordine dei Minori”, il raviolo sbarca in Emilia Romagna, regione che nel corso dei secoli si confermerà la patria della pasta ripiena.
Ma la prova più attendibile della presenza del raviolo nella tradizione gastronomica italiana ce la regala Boccaccio nel suo Decamerone, precisamente nel racconto dell’ottava giornata con la terza novella che illustra al lettore il paese di Bengodi. All’inizio del racconto si paragona il borgo ad un luogo dove: << eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi».
Circa tre secoli dopo lo ritroviamo ne “Lo cunto de li cunti” di Gianbattista Basile. La Gatta Cenerentola, la sesta fiaba della prima giornata, ci consegna una testimonianza della presenza dei ravioli nella cucina seicentesca napoletana. La descrizione dei festeggiamenti dati dal re per trovare la fanciulla che aveva perso lo scarpino, dimostra la diffusione, già all’epoca, oltre che di pastiera e casatielli piatti tipici della cucina pasquale anche dei ravioli (graviuole):
« E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che nce poteva magnare n’asserceto formato. »
Le variazioni del ripieno di questa pasta che unisce l’Italia da Nord a Sud passando per la dorsale appennnica sono innumerevoli, con la carne, con il pesce, con le verdure, con le erbe spontanee e a tal proposito fanno scuola i ravioli con borragine e miele di Peppe Zullo ad Orsara di Puglia, i ravioli capresi il cui involucro costituito da acqua e farina, rigorosamente senza uova che troviamo nel ripieno insieme a caciotta, ricotta e fiordilatte conditi con sugo di pomodorini freschi. Se però vogliamo parlare di raviolo così come lo intendiamo noi campani non possiamo prescindere dal ripieno di ricotta, mentre nelle isole maggiori sono il primosale o il pecorino a farla da padrone.
Oggi vi parleremo dei ravioli in uso nel Vallo di Diano e nelle zone più interne del Cilento.
La peculiarità sta in due elementi. La prima è la presenza di un’idea di zucchero e un vago sentore di cannella nel ripieno, la seconda è nell’involucro che contorna abbondantemente la farcia, la cosiddetta “pettola” (tanto da essere chiamati Pettuluni) che, come da sempre accade nelle zone più povere, è uno degli escamotage per rendere il piatto più saziante.Quella dello zucchero nel ripieno non è un’idea bislacca oltre ad essere retaggio dell’uso tutto rinascimentale di considerare lo zucchero alla stregua di una vera e propria spezia: <<Il zuccaro non guasta mai minestra>> come afferma nel Cinquecento il botanico Costanzo Felici, andrà a bilanciare l’acidulo del pomodoro e la piccantezza del pecorino.
Purtroppo questa tradizione, come tante altre, va via via scemando ed è un peccato dato che il vero futuro è la memoria.
Quindi abbandoniamo tutti i preconcetti, sarà una bella esperienza scoprire come l’idea di zucchero regalerà al piatto un quid in più.
Ingredienti per 6 persone
Ricetta di Luciano Petrizzo da La Cucina Padulese
Per la sfoglia,
500 kg di semola rimacinata
3 uova
700 ml di acqua tiepida
Per il ripieno,
500 Kg di ricotta di pecora
200 g di pecorino grattugiato
1 mazzetto di prezzemolo tritato
1 cucchiaio di zucchero semolato
Per condire
Ragù di carne mista
Pecorino grattugiato
Procedimento
Disporre la farina a fontana sul piano di lavoro, porvi al centro le uova leggermente sbattute, l’acqua e impastare il tutto fino a che la pasta non diventi elastica.
Coprire con pellicola e lasciar riposare.
Mescolare la ricotta con le uova, il pecorino, il prezzemolo finemente tritato e lo zucchero .
Stendere la pasta e tagliarla in strisce abbastanza larghe.
Con una sac a poche fare dei mucchietti di ripieno ben distanziati, ricoprire con l’altra sfoglia, sigillare bene e ritagliare a rettangolo, avendo l’accortezza di lasciare un po’di pasta a contorno, ogni raviolo deve avere una dimensione di almeno 8×8 centimetri.
Lessarli in acqua abbondante, scolarli e, in una capace zuppiera, condirli a strati con ragù di carne ben caldo e con una generosa spolverata di pecorino.
Servire fumanti!
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