di Stefano Tesi
Da buon senese nutro sentimenti contrastanti verso uno dei prodotti più classici della Toscana, il vinsanto.
La lunga frequentazione non aiuta, perché i ricordi familiari e non – sia quelli legati alle strette caratteristiche del vino, perché di vino si tratta, sia quelli legati alla sua utilizzazione, diciamo così, gastronomica – si accavallano. E devono fare i conti con mercati che cambiano, abitudini che mutano, stili che si evolvono.
Da un lato mi disturba la deriva un po’ cheap, diciamo pure liquorosa, che il consumo di vinsanto ha preso negli ultimi decenni, orientando così anche i consumatori verso l’orribile abitudine di inzuppare il cantuccio industriale in un prodotto zuccheroso da due soldi. Da un altro mi disturba il trend opposto, quello verso la sauternizzazione, che nel tentativo di conferire una “nobiltà consumabile” più ampia e ruffiana ha tolto assai spesso identità alla tradizione: quella secondo cui, più che da dessert, il vinsanto era una bevanda da aperitivo, da cortesia e da “conforto”, da cordiale quasi, che si beveva prima di uscire o si offriva a chi tornava. Un vinsanto pallido, piuttosto secco, elegante e in qualche modo delicato. Ognuno riconosceva al volo quello di casa propria.
Nelle fattorie, del resto, la padrona di casa teneva le chiavi di tutto, tranne una: quella della vinsantaia, che invece restava fissa nelle tasche dei calzoni del padrone e guai a chi la toccava. Anche ciò faceva sì che il vinsanto fosse qualcosa di strettamente familiare, sempre ortodosso ma anche sempre diverso da tutti gli altri.
La progressiva dolcificazione del vinsanto, fenomeno relativamente più recente, si è incrociata con la perdurante crisi dei vini dolci, con ciò che ne consegue.
Ho fatto questa lunga premessa per dire che di vinsanti ne assaggio spesso, perfino li colleziono lasciandoli a invecchiare ulteriormente in cantina e mi diverto a fare confronti. Di rado però ne trovo qualcuno che mi rievochi, se non il gusto, almeno i piaceri e le sensazioni del passato.
Nei giorni delle feste ne ho incrociato uno.
Si chiama Collefresco, anno 2008. E’ un Vinsanto del Chianti doc e viene dal Casentino, zona di Subbiano. Lo produce l’avvocato Lorenzo Massart nella sua azienda di Poggiotondo, che avevo conosciuto parecchi anni fa e poi perduto di vista.
Uva di Trebbiano e di Malvasia da vigneti sui 350 metri di quota, fatto in caratelli “di varie grandezze” dove resta cinque anni prima di andare in bottiglia, dice la scheda aziendale.
Buono e confortante.
Limpido ma non cristallino, di un colore ambrato scarico, appena velato, che non evoca certe tonalità caramellose oggi tanto diffuse e talvolta un po’ artificiose. E’ soprattutto al naso, però, che colpisce, con una trama granulosa, rarefatta e gentile di datteri schiacciati e di melata, con accenni di miele di acacia e di sulla. Nulla di troppo penetrante né di troppo intenso: è il bouquet che basta per sapere di antico.
In bocca non è da meno. La piacevole granulosità olfattiva di traduce al palato in una dolcezza quasi cremosa, intensa ma misurata, niente affatto stucchevole, che produce un gusto lungo, lineare, composto. Perfino cangiante.
Io l’ho gustato con dolci speziati come il panforte o i cavallucci e l’ho finito a piccoli sorsi, durante la successiva la conversazione. La sua pulizia non “incolla” infatti la lingua. Casomai, coi suoi 16°, la scioglie.
Peccato che ne abbiano fatte solo 620 bottiglie da 0,375 cl.
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