E con soggezione e circospezione che mi accingo a parlare di uno dei più classici e mitici vini di Francia. Quasi in punta di piedi, perché qui a Morey St. Denis, in piena Cote de Nuits, il blasone e la storia di Clos de Tart non sono secondi a nessun Chateau o Domaine dell’esagono.
Pare contraddittorio quindi venire a conoscenza del fatto che prima della legislazione delle denominazioni d’origine del 1936 i vini bianchi e rossi del comune di Morey fossero sovente commercializzati sotto le denominazioni circostanti più note al pubblico dell’epoca, e cioè Gevrey Chambertin e Chambolle Musigny. Ancor più stupefacente che ciò accadesse all’interno del comune dove oggi la quantità di Clos e di Grand Cru non sono secondi ad alcun altro comune della Cote de Nuits. Sono infatti ben cinque i grand cru di Morey St.Denis:
Clos de La Roche, Clos Saint Denis, Clos des Lambrays, Bonnes Mares e appunto, Clos de Tart.
Una sequenza che semplicemente rileggendola farebbe accapponare la pelle ad ogni appassionato di Borgogna.
Clos de Tart, contrariamente a quasi tutti i grand cru di Borgogna è un Monopole, cioè l’intero vigneto situato all’interno dei caratteristici muretti di pietra appartiene totalmente al medesimo proprietario, la famiglia Mommessin, quelli del Beaujolais . L’esatto opposto, per esempio, del famosissimo grand cru che fa di nome Clos de Vougeot, dove i circa cinquanta ettari interni ai muretti del Clos sono sbriciolati in circa ottanta parcelle appartenenti a diversi proprietari.
Questo è un altro dei tipici rompicapo borgognoni che allontanano da questi vini gli appassionati meno cocciuti e giustamente avviliti da brutte esperienze , perché se stasera decidete di permettervi un Clos de Vougeot senza aver identificato con criterio un produttore degno di fiducia avrete molte possibilità di versarvi nel bicchiere una solenne ciofeca, mentre se decidete di permettervi un Clos de Tart, se non sbagliate la scelta dell’annata avrete certamente nel bicchiere uno dei più sontuosi vini di Borgogna.
Questo per diversi motivi, primo fra tutti la possibilità di scelta dal volume di frutto raccolto nelle diverse parti del Clos, che occupa la discreta superficie di sette ettari e mezzo e consente una produzione media di 25000 bottiglie annue. Con il resto della produzione non ritenuta idonea a reggere il rango di grand cru si farà un secondo vino senza troppe pretese, la Forge .
Questo grand cru possiede un paesaggio interno con rilievi diversi rispetto al vicino di muro, il Clos de Lambrays, avendo al suo interno delle parcelle dove affiorano rocce differenti sui diversi versanti ed è attraversato da una vena calcarea comune anche al medesimo Lambrays ed al mitico Bonnes Mares. Un’altra particolarità è l’allineamento di filari disposti invece che nel senso del pendio, nel senso perpendicolare ad esso, accorgimento raro in Borgogna, ma utile per limitare l’erosione della superficie della terra e a quanto pare anche per raggiungere una maturità ideale di frutto nelle annate troppo calde e dove si rischierebbe di vendemmiare una confettura. Cosa per altro avvenuta nel folle 2003 , il cui vino sembrava un Cote Rotie e il tenore alcolico aveva sfondato quota 16 ° .
Il buon Sylvain Pitiot in tutti gli anni che ha passato al Clos quale regisseur del Domaine ha sommato un’esperienza che gli ha consentito di conoscere pietra per pietra il suo terreno , conversando singolarmente con ogni piede di vigna e ottenendo da loro il massimo, e cioè i più grandi vini usciti sotto l’etichetta Clos de Tart.
Si usa generalmente associare il bouquet di Clos de Tart a quello dei suoi illustri vicini, ma volendolo identificare singolarmente io credo che questo sia possibile individuandone, nelle annate classiche, i sentori di fiori rossi, di frutti neri e rossi con la sensazione finale tartufata che controfirma la nobiltà del terroir.
Le ultime annate sono tutte diverse ma tutte molto interessanti per le diversità espresse dalla natura e rispettate in vinificazione. Anche qui, come spesso in tutti i rossi della Cote de Nuits, le annate problematiche sono per motivi opposti motivi la 2003 e la 2004, mentre il filotto successivo lo vorrei avere davanti per uno stappo selvaggio e senza ritegno. Probabilmente all’apice della forma anche la 2000 e la 2001, mentre la 1999 dovrebbe avere ancora molto da dire in prospettiva e quindi sarà meglio lasciarla coricata.
Tra le più vecchie annate bevute negli ultimi anni c’è stata una gradevolissima bottiglia di 1983, integra e gentilmente evoluta, abbinata con un fagiano in sfoglia tartufata. Tartufo nel piatto e tartufo nel bicchiere , bien fait!
Ma l’annata da sogno rimane però la 1996, che ho bevuto qualche mese fa con niente e che al primo impatto con il naso mi ha emozionato così violentemente da farmi esclamare: 100 !
gdf
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