di Teresa Mincione
In una cena tra amici è bello coccolarsi con qualche etichetta speciale. L’occasione lo richiede e lo spirito ringrazia. Ci sono vini amati e vini amanti. I primi li scegliamo perché già sappiamo cosa troveremo nel bicchiere e ci appaga il sol pensiero di tornare ad assaggiarli ogni volta il desiderio lo richiede. I secondi sono figli della curiosità istintiva, della diversità organolettica che in alcune sere bussa al nostro gusto. E voilà, ecco scivolare nel calice il millesimo 2009 della Coulée de Serrant di Nicolas Joly. Un vino amante e non un qualsiasi Chenin Blanc. Si fermano gli orologi. Un vino simbolo dell’enologia d’oltralpe, della biodinamica e figlio della Valle della Loira; cuore dell’appelation in monopolio della famiglia Joly. Un cult per i viticoltori che hanno applicato con successo i principi di Steiner alla viticoltura. Un vino mitico, sacro, celebrato, ma anche criticato. Certamente uno dei bianchi più famosi al mondo e vino di punta di Nicolas Joly, padre e filosofo della biodinamica, fondatore dell’associazione La Renaissance Des Appelations, sostenitore del moto dei pianeti, delle energie e fasi lunari. Di lui tanto si è detto, scritto. Per alcuni un santone, per altri un asceta, un guru o semplicemente un visionario. Tanti detrattori, altrettanti scettici come convinti sostenitori.
La Coulée de Serrant fu il nome dato ad una vigna piantata dai monaci cistercensi verso il 1130. Da allora, in quel luogo, è sempre rimasto in vita un vigneto. Proprio sulla scontrosa collina che volge verso la Loira, la Coulée de Serrant (AOC Coulée de Serrant) un delizioso vigneto di 7 ettari. L’azienda nasce nel 1962. Nicolas e la sua famiglia, proprietaria della tenuta, decisero di abbracciare la viticoltura biodinamica per applicarla al vitigno Chenin Blanc (già dal 1980) e dal 1984 alcuna sostanza chimica di sintesi, insetticidi o nitrati sono stati introdotti in vigna.
Varietà a bacca bianca, assoluta protagonista del tratto tra Tours e Anger, a fioritura precoce, sensibile alle gelate primaverili, con maturazione lenta e tardiva. La sottile buccia lo rende sensibile alla muffa nobile, permettendo, nelle annate favorevoli la produzione di “grains nobles”. Una varietà difficile da lavorare. E’ come allevare un figlio ribelle, ha sempre sostenuto Joly. I filari poggiati su suoli scistosi, con qualche presenza di quarzo e sabbia silicea, sono lavorati esclusivamente con l’ausilio di un cavallo. Le rese dei vigneti di proprietà sono bassissime. La vinificazione è tratteggiata da una fermentazione spontanea lenta in doppia barrique di rovere da 500 litri usate e in un affinamento per 6/8 mesi sulle fecce fini negli stessi contenitori.
La Coulée de Serrant 2009, Chenin Blanc in purezza (in loco chiamato Pineau Loire), è un bianco che ha fattezze e sembianze diverse rispetto ad altri Chenin. Il colore è ambrato e caldo. Alcuni sentori ossidativi lascerebbero tracce di “inganno olfattivo” (alias macerazioni), eppure il vino non ne vede neanche l’ombra.
Volteggia nel bicchiere e conquista alla prima olfazione, senza compromessi. Il tempo lo aiuta a mutare, allungarsi, distendersi, sgranchirsi e cambiare aspetto. Lo riascolti per seguire il profumo e lo ritrovi diverso, più complesso, più ricco, più sfaccettato. Racconta e seduce. Si svela, si scopre. Pensi che finalmente si sia denudato, ed è solo l’ennesimo inizio. I minuti diventano ore e ancora non si fa afferrare. Definirlo da meditazione è assai riduttivo. Non esistono vie di mezzo: o lo ami, o lo odi. E’ impegnativo nella sua essenza. In una livrea preziosa color ambra nessuna velatura. Integro, di grande limpidezza e lucentezza, dalla importante consistenza. Camaleontico nei tratti iniziali di fiori secchi di zafferano, cera fusa, mela cotogna, foglia di pomodoro essiccato, fiori di campo disidratati, iodio, ovatta. Un vino che solo dopo molto tempo dall’apertura fa emergere aromi di frutta secca, fiori di tiglio, miele, mela cotta, nocciole tostate, incenso, scorza di arancia candita. Con una struttura quasi da rosso, mostra in bocca la dicotomia dei grandi Chenin: corpo di buona estrattività ravvivato da scintille di acidità sostenuta.
Le ore accolgono altri cambiamenti. Sospiri di speziatura, radice di liquirizia, note mentolate, tabacco dolce tritato, rabarbaro, fiori gialli appassiti, miele di castagno. Tutto è sussurrato. Sul lunghissimo tempo il bagaglio olfattivo è arrivato a mutare ulteriormente virando su note di petit patisserie, crème brulée, confetto, albicocca essiccata. E ancora, e ancora. Ogni minuto un nuovo volto, più evoluto, più accattivante. Il concetto di complessità è oltremodo sconfinato. La chiusura è double fase incorniciando i sentori del sorso tra dolcezze di miele grezzo, tracce gessose e picchi di piacevole mineralità. Ha rapito così tanto con questa doppia anima che addirittura si è lasciato preferire ad un Sauternes per chiudere in bellezza.
Il vino ha viaggiato per l’intera serata in prima classe: elegante nel suo incedere all’olfatto, di accattivante finezza al gusto e dalla estrema pulizia in chiusura. Le forme generose, formose e morbide sono state illuminate da rasoiate di acidità per un superbo equilibrio finale. Tres Joly!
Bevibilità, freschezza e mineralità straordinaria. Un calice ancestrale che offerto un viaggio solo andata in quella sfera magica e misteriosa che un po’ la biodinamica invoca. Un vaccino contro il nichilismo degli scettici. Cosa mancava? Un pezzo dei Pink Floid a tutto volume. Tutto il resto era proprio a quel tavolo!
“Eravamo insieme. Tutto il resto del mondo l’ho scordato”. Walt Whitman
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