di Fabrizio Scarpato
C’è il tempo delle parole, delle chiacchiere davanti a un bicchiere di vino, magari vicino al mare. Elio Altare e Antonio Bonanni si conoscono così, più di una dozzina d’anni fa: un noto vignaiolo di Langa e uno delle Cinque Terre, di quelli che ancora non avevano mollato. Le parole disegnano un’idea che, intorno al duemilaquattro, prende la forma di un vigneto insolito per queste parti, una virgola larga e pianeggiante, liberata dai rovi sulla sommità della Costa de Sèra: Campogrande, appunto.
C’è il tempo che è brutto in un mattino di fine primavera: un mare di peltro mùgghia là sotto, e sembra di stare sul ciglio della falesia di Cap Fréhel, il sale di libeccio in faccia, il giallo e il marrone contrappuntati di fiori viola. Si entra dalla parte stretta, a ridosso, dove la collina disegna una piega: non più di tre o quattro filari per albarola e vitigni a bacca rossa. Vermentino poco o niente: “troppo aromatico e poco serbevole”. Poi la piana s’allarga sull’orizzonte, profonda una dozzina di filari tutti a uva bosco, piantati sulla terra ciottolosa, inerbita solo a ridosso delle piante, e orientati a prendersi tutto il sole e tutto il sale possibili: mare verde su mare grigio. Qua e là altre piccole terrazze appena ripulite dai bòcchi, con le barbatelle che si fan strada al riparo dei sassi, il terreno rinvigorito dal letame di mucca che Elio porta giù dalle sue terre. Pezzi, brandelli di collina, ché a recuperare tutti i proprietari non basterebbe un bastimento dalle Americhe. Poi piove, e sei come immerso nella terra.
C’è il tempo della vendemmia, che si anticipa a preservare l’acido, e c’è il tempo dell’uva, che si fredda al riparo di un vano refrigerato, tanta fino a colmare il tino in un’unica soluzione, per sfidare il tempo senza sfasature. Perché forse potrebbe non bastare un Cinque Terre da frittura nel caruggio, perché forse quell’uva ha in sé la forza e la determinazione di un territorio. Consapevolezza di sé, per provare a guardare lontano. Perché il tempo comprende e confonde in sé tradizione e innovazione, in fondo la stessa cosa, una simbiosi perfetta, un reciproco alimentarsi, che si chiama evoluzione.
C’è il tempo dei vini in una piccola cantina al fondo di una bella casa sulla sponda alta di Riomaggiore. Acciaio e legni, scale e sassi. Nessuna bottiglia, si mesce da vasca, ché il Cinque Terre 2012 andrà in vetro solo ad agosto, per riposare circa tre mesi, prima del commercio. Ma è già pronto, dorato di agrumi, vivo di freschezza e sapidità. L’eco di una breve macerazione in una sottile vena di tannino, forse da arrotondare nel tempo. E sempre di tempo avrà bisogno per trovare se stesso il Telémaco, millesimo 2012, quattordici mesi da passare in barrique, con bosco e albarola a fare i conti con un legno sconosciuto. Se ne parlerà il prossimo anno, il tempo necessario per accordare note dolci di mandarino con il sale depositato su profumate foglie di macchia.
C’è il tempo che diventa valore in un caratello di Sciacchetrà. Lampi vividi d’ambra nel bicchiere, aranciata meraviglia viva, millesimata 2011. Una freschezza salina scàlpita tra tutti i riferimenti di frutta secca ed essiccata: un sorso tagliente, una sciabolata che si diffonde al palato, dritta e accattivante, seppure con inevitabili pungenze da convertire nel tempo, nel legno, per una beva già oggi, pressoché disarmante. Non più di cinquecento mezze bottiglie che Antonio confessa preferirebbe tenere per sé, per berle piuttosto che venderle: moti d’affetto, forse scrigno di memoria, di gesti perduti nel tempo, le mani a spiluccare gli acini passi, i piedi a pigiare spremendo mosto. “Io ci metto anche un po’ di uva regina”, quella dei pergoli, resa dolce, forse, da ricordi di gioventù. E non se ne vuole andare, lo Sciacchetrà che verrà: lunghissimo e carico dell’autorevolezza che gli viene dall’essere testimone di questa terra. E un po’ mi pesa pensarlo limitato ad accompagnare i pandolci liguri, bruciacchiati d’uvetta e pinoli. Antonio mi guarda e gli brillano gli occhi: “Dovrebbe sentirlo col Castelmagno di Elio”. A questo punto la suggestione si fa insostenibile, tiro il fiato e mi prendo tutto il tempo per finire, fino in fondo, il mio bicchiere.
C’è il tempo delle bottiglie che riassumono un pensiero. Il Telemaco 2011 non ha abdicato a tutta la sua sapidità in favore del legno, che tuttavia mitiga e léviga il sorso, mescolando note tostate e esili tannini con una delicata punta citrina, mentre un frutto, forse susina, fa capolino tra l’erba spazzata dal vento. Sembrano dimenticati gli agrumi dolci e pimpanti che invece pervadono il bicchiere del Cinque Terre 2011, portando spinta e pienezza, con rimandi esotici innervati di roccia e spruzzati di salsedine, per una beva appagante, masticabile, arrampicata e aggrappata al palato per un tempo infinito. Sebbene più quiete, la freschezza di un sorso di Cinque Terre 2010 e l’immutata tensione lievemente ammandorlata dell’annata 2009 fanno intuire che nello zaino c’è di che affrontare il viaggio nel futuro: oggi è difficile capire se il tempo sarà complice o piuttosto nemico cui resistere.
C’è il tempo che è bello in una sera d’inizio estate. All’ombra dell’ultimo sole Campogrande è bellissimo, assopito e languido sulla sommità della collina. Luccica e freme di un verde luminoso, come una specie di sorriso.
Azienda Agricola Campogrande
Riomaggiore
2 ettari vitati, 8000 bottiglie prodotte