“La madre terra, privata dei suoi diritti di concimazione, è in rivolta: la terra scende in sciopero; la fertilità del suolo decresce e aumentano le malattie” questo è quello che scriveva Sir Albert Howard ( agronomo (1873-1947) nel suo libro – Diritti della terra – alle radici dell’agricoltura naturale -Slow Food editore. Howard con questo saggio scritto cento anni fa riafferma la necessità di ripartire dalla terra per riannodare il legame fra ambiente, alimentazione e salute. Convinzioni assunte nel lontano 1905 dopo che, giunto in India per conto della Casa Reale britannica, impose ai sudditi orientali, quindi gli indigeni, a mettere da parte le ataviche coltivazioni per inserire nelle loro strumentazioni l’aratro e i fertilizzanti chimici ed entrare, cosi, nell’epoca dell’agricoltura industriale. La passione per l’agricoltura lo portò a verificare da subito che i veri selvaggi erano quelli che cercavano di “civilizzare” l’agricoltura, quindi gli occidentali e non le pratiche orientali che permettevano di vivere in simbiosi con la natura, concimando naturalmente, evitando mono colture e cercando di fare raccolti misti per poter mantenere fertile il suolo. Niente aratro, niente concimi chimici e grande equilibrio tra allevamenti e concimazioni di terreni con materiale organico. Riconosce da subito il fallimento dell’agricoltura forzata, dell’agricoltura industriale che omologa ogni tipo di vegetazione e di coltivazioni. Quanti di noi ricordano le varie tipologie di frutta, ad esempio le pere, che “popolavano” i nostri appezzamenti di terreno, le pere stipo, pere cavazze, pere sabbelle, pere campanare, pera muscarella, pera sangiovanna, la pumicella, mela cotogna, mela agreste, mela zinna, il sorbo ormai introvabile e centinaia di altri frutti che variegavano i terreni dell’intera Basilicata. Oggi sulle nostre tavole troviamo tre quattro o cinque tipi di mele, tre, quattro, cinque tipi di pere, un paio di varietà di uva che nel sapore, alla fin fine, è tutta uguale. Varietà di frutti ben difficile anche da distinguere. Quanta ricchezza dispersa negli ultimi decenni! La globalizzazione ha imposto modelli di coltivazione industriale con l’unico scopo di ottenere un’omogeneizzazione e standardizzazione dei prodotti che non hanno nessuna identità, nessun gusto ma che soprattutto impoverisce la terra, arricchendo però le multinazionali, la grande distribuzione, ottenendo solo omologazione.
Il recupero dei prodotti locali e la creazione di una nuova cultura delle comunità agricole può davvero fare la differenza economica in una Regione come la Basilicata. Regione vocata per natura all’agricoltura di nicchia e al conseguente turismo che essa produce. La crisi dell’industria in Basilicata è fisiologica, la nostra regione non si presta, sia da un punto di vista orografico che culturale, ad una logica di industrializzazione forzata. I grandi attrattori della Lucania sono l’ambiente, la natura, nella maggior parte incontaminata, i suggestivi paesaggi, i piccoli paesi custodi di gastronomie e tradizioni, l’eccellenza dei prodotti ricavati da una terra ricca di sapori e profumi. Facendo attenzione che le produzioni locali non diventino produzioni globali. Sarebbe un paradosso ma purtroppo è un solco già tracciato da parecchie regioni del centro e del nord Italia, dove usano il nome di piccoli appezzamenti, circoscritti, e di piccole produzioni per invadere il mercato internazionale. Mentre per il prodotto buono, quello con i sapori bisogna attendere la sua giusta stagione e andarselo a cercare nel luogo di origine, sperando che si abbandoni l’idea che il Natale ha più sapore con le ciliegie cilene! Ma questo è più difficile da far capire.
*chef e gastronomo
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