Fortunato Sebastiano si occupa di viticoltura ed enologia dal 1998. Dopo la maturità scientifica lascia Ariano Irpino alla volta di Roma quindi in Toscana dove si laurea alla Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa con una tesi in viticoltura sulle possibilità espressive del vitigno Fiano, con il Prof. Giancarlo Scalabrelli come relatore. Le prime esperienze professionali lo hanno visto al lavoro dapprima in Toscana, in Sicilia, nelle Marche e poi, di ritorno, in Campania dove nel 2002 fonda il gruppo di lavoro Vignaviva.
Come nasce la tua vocazione per l’enologia e per il tuo mestiere?
Decisamente da una reale passione per il vino come momento conviviale ed elemento fondamentale della nostra cultura. Negli anni ‘90 in Irpinia, la mia terra natale, si muovevano i primi passi di quello che sarebbe stato il rinascimento vitivinicolo della regione ed era facile restare affascinati dal mondo del vino; altro aspetto fondamentale della mia decisione nell’affrontare questo mestiere è stato l’amore per la natura, la continua ricerca della comprensione dei sottili meccanismi che regolano il “nostro” meraviglioso mondo vegetale. Mai ho pensato di scindere i due aspetti della produzione agricola ed enologica nel mio mestiere e per fortuna il mondo del vino, anche se alla lunga, mi sta dando ragione. Da ciò deriva la mia ferma convinzione di dover approfondire il più possibile lo studio della viticoltura per ottenere vini degni di questo nome.
Quali sono secondo te i riferimenti indispensabili per diventare un buon enologo?
In parte ho già risposto precedentemente ma sottolineo che il nodo fondamentale per fare questo lavoro, per come lo intendo io, è la decisiva continuità tra il lavoro in vigna e quello di cantina. Spesso ho assistito, nel lavoro come nella comunicazione di settore a delle vere e proprie aberrazioni riguardanti la produzione del vino. Il massimo cui si possa aspirare nel produrre vino è arrivare ad avere piante sane che portino a vini di personalità e territoriali, apprezzati nelle loro particolarità varietali e soprattutto salubri. L’enologo può e deve garantire tutto questo. E poi di certo la capacità di confrontarsi e di ascoltare, evitando atteggiamenti accademici ed anzi essendo sempre pronti a rimettere in discussione un concetto, un’idea, un’intuizione. Fare questo mestiere attiene alla pratica, alla preparazione ed all’immaginazione, molto meno ai proclami mediatici. Non mi fiderei mai di un tecnico che non avesse mai fatto il cantiniere o che non sapesse “leggere” una pianta di vite. Ho imparato tanto dai miei incontri e dalle mie esperienze e questo è al servizio delle aziende che lavorano con me.
In regione, negli ultimi anni, stanno venendo fuori tanti giovani enologi motivati, e a quanto pare anche piuttosto preparati; un fenomeno passeggero o stiamo assistendo alla nascita di una vera e propria scuola campana?
Credo che non sia un fenomeno passeggero ma occorre fare delle precisazioni. La scuola campana è secondo me di là da venire, visto che alcuni dei miei più brillanti colleghi hanno studiato fuori dalla nostra regione che è stata un po’ arroccata su posizioni scolastiche e “di chiusura” per diversi anni, a differenza di ciò che accadeva per esempio in Piemonte, Toscana, Veneto, dove vi è stata ferma volontà di rendere competitivo il mestiere dell’enologo o comunque del tecnico vitivinicolo. Chi in Campania è riuscito nella professione di enologo lo deve esclusivamente a grandi doti personali. Ciò è ancora più grave se si pensa che la nostra Scuola Enologica di Avellino è stata la seconda ad essere aperta in Italia nei primissimi anni del ‘900. Oggi abbiamo bisogno di un enorme passo in avanti nel lavoro di campo, di grande interesse verso la viticoltura, di aggiornare la figura dell’enologo inteso non più come esperto delle sole pratiche analitiche, di cantina o amministrative che pure, ovviamente, sono di enorme importanza. Le moderne scuole di viticoltura ed enologia possono adempiere a questi compiti ma vanno dirette con lungimiranza e strizzando l’occhio alle più attente regioni viticole del mondo. L’enologo può essere il perfetto ponte tra gli obiettivi aziendali ed il loro raggiungimento. Ci sono enormi sfide che debbono essere vinte, oltre che nel campo viticolo anche in quello enologico: lo svecchiamento di metodiche riproposte pedissequamente, la riduzione drastica dei conservanti nella matrice vinosa, l’adattamento delle pratiche enologiche ai singoli vitigni, la caratterizzazione sensoriale del nostro patrimonio viticolo, la zonazione dei territori in relazione ai risultati enologici, il raggiungimento di alti vertici qualitativi anche sulle grandi produzioni, solo per citarne alcune. Ed in questa direzione ci si sta muovendo per fortuna, sia nell’ambito dell’associazione di categoria (leggi Assoenologi) – del cui consiglio in regione ho l’onore di far parte – sia nelle singole realtà aziendali. Detto questo ben vengano nuove leve, tutti assieme si metterà più in alto l’asticella della qualità, soprattutto perché pare superata l’era dei consulenti a distanza e c’è sicuramente spazio per le competenze “autoctone”. Sia ben chiaro, lavoro anch’io fuori dalla Campania ma spendo davvero molte energie per colmare le mie lacune rispetto ai territori in cui mi trovo ad operare. Infatti occorre conoscere profondamente un territorio per interpretarlo e rendergli onore, anche a costo di produrre vini non immediatamente allineati ai gusti di massa. La mia speranza è rimessa in questo, nella convinzione che ci sia spazio per centinaia di grandi vini molto diversi fra loro ma espressione del territorio e delle persone di cui sono figli, ivi compresa la figura dell’enologo come principale collaboratore delle aziende. Per questo ho fondato Vignaviva, per rendere fattibili questi concetti.
Chi sono stati, se ci sono stati maestri, i tuoi riferimenti in materia?
Ho avuto la fortuna di lavorare e studiare con grandi colleghi. Oltre al già citato Scalabrelli che mi ha trasmesso nozioni e passione fondamentali inerenti l’ampelografia e la viticoltura, cito volentieri Giacomo Tachis, l’artefice del rinascimento enologico italiano, dei grandi vini toscani degli anni 80, che è stato sempre gentilissimo con me sin dall’Università, un uomo di grande intelligenza ed umiltà. Ricordo con piacere i pomeriggi a casa sua in cui mi ha descritto l’importanza di questo o quel testo di chimica o viticoltura. Ed il suo archivio!! Ricordo volentieri anche Francesco Saverio Petrilli, enologo di Tenuta di Valgiano in provincia di Lucca, con cui ho avuto l’onore di confrontarmi agli inizi del mio percorso professionale quando lavoravo per un’azienda del Cilento di cui lui era consulente. Saverio è una persona speciale, profondamente interessato alla viticoltura e per questo ha sempre avuto il mio massimo rispetto. Con lui ho avuto modo di ragionare su molti concetti relativi al mondo del biologico e del biodinamico attraverso discussioni sempre interessantissime e pervase dalla curiosità.
Quali secondo te le principali difficoltà che incontra oggi un enologo?
Beh, questa è una bella domanda davvero. Tralasciando le difficoltà che ogni lavoro porta con sé in merito all’impegno che richiede ed il fatto che si può fare questo mestiere in tanti modi diversi, dico senza dubbio: interpretare la professione alla luce della modernità guardando contemporaneamente alla vendibilità dei prodotti, alla loro presenza sul mercato. Per modernità intendo le sfide che alcuni errori di impostazione degli anni scorsi hanno prodotto: si è infatti creduto per qualche anno che fare il vino fosse un fatto di semplice metodo, una pratica facilmente ripetibile a parità di tecniche, attrezzature e metodiche. Questo atteggiamento ha prodotto a sua volta una diffidenza verso la comprensione e la gestione della vinificazione che può avere diversi risvolti negativi sulla qualità dei vini. Qui in Campania poi vanno ancora sviscerate le potenzialità dei singoli terroir, adattate le pratiche enologiche persino alle singole aziende. Spesso si dimentica, magari in buona fede, che il vino non può e non deve essere accostato a prodotti di altro tipo, a bevande “seriali”, ma neanche a prodotti che hanno la veste del risultato “casuale”. Quindi occorre tentare sempre nuove strade per capire quali possibilità ci possa offrire ognuno degli areali. Il vino è l’unico prodotto di trasformazione agricola che sfida i decenni con integrità, a volte, col tempo, migliorando. Ciò può accadere verosimilmente per tre, quattro annate per decennio, anche a parità di lavoro ed impegno. La vera difficoltà restano le annate di media o bassa qualità viticola, dove ad entrare in gioco è la capacità del vinificatore di leggere tra le righe il potenziale inespresso e portarlo a buon fine sino alla bottiglia, non potendo sbagliare nulla. Il vino non si fa usando ricette precostituite ma nemmeno mettendo l’uva in un contenitore ed aspettando. È frutto del caso nella misura in cui l’uomo ne comprenda i risvolti, o almeno ci provi. La professionalità dell’enologo è al servizio di questa comprensione. Per spiegarmi meglio: ricordarsi che cosa sia esattamente il vino dovrebbe dare a tutti gli operatori del settore la dimensione di ciò che ci si può aspettare da un’annata piuttosto che da un’altra. Ed il vino è frutto anche dell’intuizione dell’uomo. Occorre collegarlo alla natura e contemporaneamente immaginarlo fedele ad un idea, ad un’ambizione legittima di qualità. È quello che lo rende diverso da qualsiasi altra bevanda, che spinge ad acquistare una bottiglia, per averne piacere con un buon pasto, per soddisfare una curiosità o per appropriarsi di quel piccolo viaggio nel tempo che può essere un vino. D’altronde, al giorno d’oggi, il vino è un bene di consumo di tipo edonistico, non certo un alimento come percepito per esempio negli anni ’50 e ’60. Il tentativo, secondo me, deve essere quello di fare sempre il meglio possibile, calandosi completamente nella realtà dell’annata, tenendo fermi i punti saldi della personalità dei territori e dei vitigni accanto alla schiettezza, alla salubrità, alla digeribilità dei vini, ciò che si tradurrà – aspetto non secondario – anche in vendibilità e soddisfazione del consumatore finale.
Se dovessi illustrarmi in poche righe la tua filosofia di produzione?
Quando mi approccio ad una nuova azienda cerco di capire anzitutto che tipo di persone ho davanti. Sono interessato a quelle che hanno voglia di confrontarsi, che hanno la voglia di trasferire un po’ di se stesse in quello che fanno, nel vino che immagineremo insieme. Subito dopo mi relaziono al territorio, studio le caratteristiche geomorfologiche, l’adattamento dei vitigni, la salute dei vigneti, le metodiche di gestione, le apparenti possibilità produttive. Poi, nelle aziende consolidate ed in piena produzione, cerco di capire se tutto quello che ho avvertito è leggibile nei vini prodotti, cosa che spesso non accade e di cui la proprietà è consapevole. Così iniziano una serie di ragionamenti che debbono necessariamente portarci ad un risultato aderente alle aspettative e cioè ad un vino equilibrato, armonico e complesso, nei limiti del vitigno e vigne permettendo. In campagna, mi dedico da anni ad una gestione biologica dei vigneti, quindi nessun diserbo, prediligendo sovesci e lavorazioni del suolo mirate, potatura dolce, puntuale analisi sensoriale delle uve, rese equilibrate e attenzione maniacale all’epoca ed alla qualità della raccolta. Sono molto “laico” in cantina, avendo come punti fermi la riduzione dell’uso dell’anidride solforosa ed una certa tendenza al “minimo intervento” (che non è esattamente un “lasciar stare”, anzi). Tengo molto alla riconoscibilità “aziendale” dei vini, alla loro aderenza ad uno stile. Conduco vinificazioni con lieviti indigeni e selezionati, faccio lunghe macerazioni su vitigni bianchi e rossi ed anche normalissime vinificazioni in bianco o rosato, in relazione al risultato che vogliamo ottenere ed alle possibilità strutturali e logistiche delle aziende, alle risorse umane e commerciali. Sono convinto, ad esempio e per restare su un tema “d’attualità” di cui abbiamo parlato ultimamente, che più del lievito, sia la gestione invasiva della fermentazione alcoolica a banalizzare il risultato su molti vini bianchi “moderni”. In definitiva, miro alla personalità dei vini attraverso la personalità degli uomini, cercando di non rovinare nulla nel frattempo.
Segui ormai da tempo diverse aziende collocate in più aree vitivinicole; quali sono secondo te le terre maggiormente vocate qui al sud? Sicuramente l’Irpinia come terra d’elezione per bianchi eleganti da fiano e greco e, in alcune sue giaciture collinari, anche per l’aglianico da grande affinamento. Il Vulture mi ha sorpreso come anni fa fece il Cilento per le potenzialità che ha per i rossi, enormi; a volte mi strappa un po’ di invidia, da irpino quale sono. La Costa d’Amalfi con i suoi vitigni straordinari come il tintore, la ginestra, il fenile e la pepella, un terroir del tutto particolare ed in parte sconosciuto. Il Sannio Beneventano e la provincia di Caserta per il piedirosso e la falanghina ben espressa anche sui suoli vulcanici dei Campi Flegrei. La Puglia offre espressioni piuttosto eleganti, come i primitivo di Gioia, coltivati fino a 500 metri di altitudine. La Calabria con l’equilibrio di certi Cirò. In generale il sud ha solo da approfondire il proprio approccio, le basi, anche se non dappertutto, ci sono tutte.
Il vitigno che non rinunceresti mai a lavorare?
Uno è troppo poco: l’aglianico ed il fiano. E vorrei lavorare ancora la barbera del Sannio, vitigno che amo particolarmente.
Quello di cui faresti veramente a meno?
Il merlot.
Qual è la tua prossima sfida?
Il metodo classico da fiano, greco e piedirosso, ci sto già lavorando per Villa Raiano. Ed un fiano del Cilento rifermentato in bottiglia in maniera “integrale”, ad affinamento breve e senza sboccatura, che uscirà in primavera.
E quella che vorresti vivere in futuro?
Un nebbiolo in Piemonte o in Valchiavenna, un cesanese nel Lazio, un sangiovese nel Chianti Classico.
Ti faccio tre nomi: Sannio, Cilento, Ager Falernus, terre e vini secondo me formidabili ma sempre in secondo piano; dove la Campania sta perdendo l’occasione più grande?
Forse l’Ager Falernus o il Cilento, ma in tutti e tre i territori ci sono ottimi produttori. Occorre provare a definire uno stile o più stili, una riconoscibilità, anche se sono territori molto estesi e con una eterogeneità varietale enorme.
Ricordi un vino memorabile?
Tra i tantissimi mi piace ricordare il Taurasi Radici Riserva 1990 della Mastroberardino; ne parlai una volta con il dott. Antonio e lessi nel suo sguardo una piena condivisione nell’apprezzamento di quello che per me era stato un vero e proprio archetipo della tipologia, come la loro famosissima annata 1968.
Diciamo che ti chiedano di rinunciare a tutti i tuoi impegni per seguire una sola azienda: qual è il nome che non ti farebbe batter ciglio? Questa è una domanda cattivella, diciamo la Taylor’s, a Vila nova de Gaia in Portogallo; amo i Porto.
Mi dai tre vini che secondo te non mi devo perdere?
Valtellina Superiore Sassella Riserva Rocce Rosse 1999 di Ar.Pe.Pe., tutti i vini dell’Etna del gruppo Vigneri di Salvo Foti, il Verdicchio San Paolo di Pievalta 2004.
E tu cosa bevi stasera?
Un prosecco senza solforosa di Costadilà, del mio amico Mauro Lorenzon, alla vostra salute!
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