Ieri sul Mattino abbiamo pubblicato questa intervista ad Alfonso Iaccarino.
di Luciano Pignataro
Alfonso Iaccarino invecchia felice a Punta Campanella, tra olivi, limoni ed orto biologico. “Ho l’età in cui si può dire quello che si pensa” dice scherzando l’unico cuoco del Sud che ha raggiunto l’ambito traguardo delle Tre Stelle Michelin inventando uno stile che è assolutamente aderente ai precetti della Dieta Mediterranea da tempi non sospetti. Già, perché lui e sua moglie Livia hanno sempre anticipato i temi e i tempi. Ristoranti a Macao, Marrakech, Toronto, da quest’anno a Lavello, consulenze in tutto il mondo, il Don Alfonso a Sant’Agata sui due Golfi, oggi bistellato, non è solo un ristorante, ma una azienda simbolo con decine di dipendenti sparsi nei cinque continenti.
“Il lavoro c’è, manca chi lo fa? In parte è vero, nel nostro settore è proprio così perché la realtà è molto diversa da quello che fa credere la televisione. Fare il cuoco è un lavoro durissimo, che ti assorbe tutta la giornata. Io e mia moglie Livia siamo stati una vita intera senza fare un giorno al mare, al lavoro a Natale e Capodanno sempre. Adesso con la maturità di Ernesto e di Mario riusciamo ad essere più padroni del nostro tempo, ma è un premio che possiamo goderci grazie agli anni. Ecco, io direi che il problema principale dell’Italia in questo momento è la mancanza della cultura del lavoro”.
In che senso?
“Per tutte le generazioni è sempre stata la cosa più importante, la sistemazione, la possibilità di essere autonomo. Se non studiavi andavi a lavorare. Oggi non è più così, le famiglie sono diventate troppo protettive, è un fenomeno tutto italiano, i ragazzi non sono più abituati ad affrontare gli ostacoli da soli, preferiscono rinunciare alla prima difficoltà, al primo rimprovero si ritirano, lasciano”.
Ma tanti invece addirittura emigrano per lavorare, ancora oggi.
“Si, quelli sono i migliori. Oggi noi non abbiamo una fuga di braccia, ma di cervelli ed è una cosa che debilita il nostro paese”.
Per quale motivo i migliori preferiscono andare fuori?
“Molto semplice, per due ragioni. La prima è che il nostro non è più un paese meritocratico e dunque per chi ha ambizioni diventa difficile coltivare il proprio talento e al tempo stesso doversi preoccupare di creare le relazioni giuste per emergere. La seconda è che la nostra scuola non è più adeguata ai tempi che sono cambiati”.
Una frase che si sente spesso in giro.
“Ma certo, un tempi i migliori direttori di albergo erano tutti italiani, oggi, se lo sono, è perché hanno studiato all’estero. E lo stesso vale per la sala e per i cuochi. Si, c’è stata qualche iniziativa in controtendenza come l’Alma, ma di per sé non è sufficiente. Al Sud manca una scuola dove si insegna la gastronomia da un punto di vista mediterraneo e meridionale, che insegni ai ragazzi ad usare i nostri grandi prodotti, dall’olio alla pasta secca, dai pomodori agli ortaggi. C’è ancora l’idea che il risotto sia più fico senza capire che il riso si mangia in tutto il mondo ma che la pasta è identitaria italiana”.
L’istruzione è stato il settore più penalizzato in questi anni di tagli alla spesa pubblica perché non ha lo stesso potere di lobby della sanità. Ma c’è forse una strategia di fondo sbagliata, anche su quello che andava insegnato.
“Naturalmente, non siamo il popolo delle catene di montaggio, della quantità. Le nostre eccellenze sono legate alla capacità di adattamento, alle eccellenze, alla creatività, alla ricerca pura. Nel momento in cui abbiamo pensato di essere una catena di montaggio ci siamo esposti ai rischi della concorrenza di altri paesi in un mondo sempre più veloce che non ha nemmeno le regole. Dunque sui numeri è facile essere superati. Bisognava fare un grande Casinò in Costiera, ma è una cosa impensabile”.
Perché siamo il paese dei permessi che diventano veti incrociati.
“Certo, io per fare una riparazione ad un casolare nella proprietà di Punta Campanella ho dovuto battermi per avere dieci, dico dieci, autorizzazioni diverse. Quale imprenditore sarebbe così matto da investire in un Casinò che potrebbe essere bloccato per anni da un ricorso al Tar? A Roma le scale mobili sono ferme da otto mesi, nel frattempo a Macao hanno costruito una autostrada sul mare. Questo è il punto, il mondo sta viaggiando ad una velocità diversa e noi non siamo in grado di tenere il passo. Ecco perché, di conseguenza, non c’è formazione adeguata. Anche nel nostro settore”.
Ritieni che non ci sia alcuna possibilità di recupero, che cioè si deve solo andare fuori per formarsi e lavorare?
“Vedi, quando sto fuori ogni cosa che si desidera è davanti al banco, puoi comprarla perché la distribuzione mondiale è più forte delle stagioni e delle distanze. Poi però addenti quella frutta, mangi quella verdura e non sanno di nulla, nonostante siano perfettamente esposte e molto belle a vedersi. Poi mangi un pomodoro San Marzano, una albicocca del Vesuvio e senti il sapore in bocca. Voglio dire che abbiamo di che costruire il nostro futuro ed essere competitivi: puntando sulla qualità alla quale nessuno può accedere perché le condizioni pedoclimatiche non si possono spostare da un capo all’altro del pianeta”.
Infatti, di fronte ad analisi catastrofiche, ad un ceto politico assolutamente distante da quello che è il comune sentire, assistiamo ad una rivoluzione silenziosa in corso. Chi ha studiato agraria si toglie il camice e inizia a coltivare, ad allevare, i nipoti riprendono vecchi appezzamenti dei nonni…
“Infatti le cose stanno cambiando e noi come ristoratori ce ne stiamo accorgendo. Oggi possiamo scegliere fra tanti pomodori di qualità, tanti olii extravergini, legumi, produzioni artigianali, formaggi, impensabili sino a vent’anni fa. Se pensiamo che siamo stati noi del Don Alfonso i primi ad inserire i vini campani in carta, e allora per un tristellato sembrava una bestemmia, si può capire come sia cambiata la situazione”.
Insomma, l’individualismo cronico dell’essere italiani è una risorsa in tempi difficili.
“Si, visto cosa è successo con la pizza? Un vera e propria rivoluzione inaspettata nel giro di pochi anni. I ragazzi hanno trovato un nuovo orgoglio in questa professione e alla fine il mestiere si trasmette anche se non c’è ancora una materia del genere nelle scuole pubbliche. La nostra gastronomia è talmente forte da imporre i temi. Volevano distruggere la pizza napoletana, dicevano addirittura che a Napoli non la sapevano fare ma oggi, è sotto gli occhi di tutti, è proprio con questo stile che si sta spaccando nel mondo. Ecco, serve qualcosa di simile anche per la nostra gastronomia”.
Chef Alfonso Iaccarino
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