di Raffaele Mosca
Il miglior vino neozelandese assaggiato negli ultimi anni non è un classico Sauvignon ultra-vegetale, ma uno Chardonnay all’intersezione tra Nuovo Mondo e Vecchio Mondo. Inconfondibilmente “kiwi” nella chiusura: un canonico tappo a vite che, a giudicare dagli esperimenti di chi lo ha introdotto anche in Italia, allunga la vita di qualunque vino di un almeno un paio d’anni. La scritta “fuder”, però, è una storpiatura della parola francese “foudres” e allude all’affinamento in legno grande da 1000 l, che serve a scongiurare l’effetto “caramello e cocco” tipico di alcuni Chardonnay prodotti fuori dall’Europa (ma anche nel continente da chi vuole scimmiottare un certo stile del Nuovo mondo). Le uve vengono da una singola vigna in quel di Malborough, coltivata in regime biologico e di età superiore a 30 anni. Anche sulla vinificazione le informazioni sono precisissime: gli acini sono pressati interi – per avere più acidità e delicatezza aromatica – e viene utilizzato solo mosto fiore, che fermenta con lieviti indigeni e poi affina sulle fecce fini nei contenitori menzionati sopra.
Il vino è uscito un paio d’anni fa. Presenta una veste dorato shocking e sfodera un naso elettrizzante. C’è la dolcezza tipica del vitigno e delle terre irrorate di luce abbagliante del Nuovo Mondo: ananas, albicocca, nocciole tostate e caramello salato. Ma ci sono anche note più scure: quasi un tocco d’idrocarburo – forse rafforzato del tappo a vite – che si allinea con ventate balsamiche, zenzero e un che di iodato. La bocca è completamente diversa dal naso: non priva di polpa, ma straordinariamente fresca e snella, con acidità puntuale, salinità coerente e giusto qualche ritorno di frutto esotico e di tostatura da rovere sul fondo. Il paragone con la Borgogna è inevitabile: alla cieca probabilmente chiameremmo Chassagne Montrachet o dintorni. Agile e di spessore allo stesso tempo, funziona bene su tutta la cucina di mare e riesce a non sovrastare nessun sapore. Ha anni e si trova solo all’inizio del suo percorso. Merito della chiusura, ma anche di una vinificazione certosina, che la dice lunga sulle competenze tecniche che i produttori neozelandesi – ma non solo – sono riusciti a sviluppare in un tempo molto più breve rispetto a quelli italiani.
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