Innanzitutto la preparazione fisica. Non si può andare alla Maratona Olimpica senza una adeguata preparazione, per fortuna ne fanno una ogni quattro anni e quindi chi la vuole affrontare ha tempo di prepararla con buon margine di tempo, poi, dopo il massacro dei 42 chilometri ha di nuovo anche tutto il tempo per il recupero fisico e mentale.
Presa con questa filosofia, anche una degustazione professionale alla Moon Import di Pepi Mongiardino diventa gestibile. Anche più di una ogni quattro anni, ma non più di due o tre mi raccomando!
Bisognerà preparare i carichi di lavoro gradatamente, inizialmente bevendo mezzo litro di alcol al giorno a crescere fino ai tre litri, rum e whisky inclusi. Il giorno in cui sentirsi pronti sarà quello in cui il carico di tre litri prolungato per alcuni giorni non provocherà troppo acido lattico agli arti superiori , la mobilità degli arti inferiori rimarrà accettabilmente rettilinea e la connessione sinapsi-occhio-mandibola non darà a chi vi guarda la sensazione di trovarsi di fronte a Tom Waits in acido.
La sequenza, nel covo Busallese è sempre stata impressionante per qualità e quantità, o per dirla in un solo termine “generosità” . Mai visto da nessun distributore italiano saltare così tanti tappi e di così alta qualità. La tradizione vuole che la giornata parta presto e finisca tardi, nel senso che fare colazione alle dieci con venti Champagne da urlo con splendida focaccia genovese fresca è già una 3000 siepi con rincorsa a lepre keniana in fuga.
Il rito poi vuole che la sequenza di bollicine termini all’aperto, non tanto perchè la pericolosità delle sciabolate sui colli della bottiglie a tasso 1,2 di alcol possa essere penalmente rilevante, quanto perchè la carica carbonica presente nello stomaco da qualche parte dovrà pur uscire.
Di quel che segue dopo le 13 preferirei parlarne altrove, dove altri fuochi d’artificio non mancheranno mai, mi limiterei qui all’atto finale della kermesse mattutina, dopo l’assorbimento massiccio di salinità gessosa tipica dei grandi cru della Champagne, e dell’accento toscano di Filippo Tacchella, contaminante di ironica simpatia e che mi fa parlare tre giorni anche a me come Benigni. Tacchella, in quelle rare occasioni mi ha sempre voluto al suo fianco, ma non mi è mai rimasto chiaro in mente se il motivo fosse un appoggio verbale alla platea piuttosto di un appoggio e basta.
Dunque andiamo a sciabolare. Clos de Goisses what else?
Grandioso, un millesimo dopo l’altro, con continuità e personalità .
Mi lascia curiosamente stupito lo storico atteggiamento tiepido ora, e freddino nel recente passato da parte della critica francese nei confronti di questa nobile casa che fa di nome Philipponat, la cui fama è sicuramente più consolidata in Italia che in Francia.
Clos de Goisses poi è un mito tra i miti con Clos de Mesnil di Krug e Vieilles Vignes de France de Bollinger, salvo costare molto di meno, forse anche perché è il più grande dei Clos de la Champagne con i suoi 5,5 ettari.
Piazzato su quella collina dal curioso profilo che ricorda incredibilmente la forma riflessa della medesima bottiglia utilizzata, è vitato a grande maggioranza di pinot noir, percentuale che si ritrova anche in bottiglia. Produzione limitata dalla selezione rigorosa fra le uve di 15 parcelle di una sola vigna, raccolte, pigiate e vinificate separatamente.
Abbastanza articolata la produzione, che comunque non supera i limiti della media maison de la Champagne dove non sono poche quelle che superano la considerevole cifra del milione di bottiglie. Qui ci si ferma attorno alla quota di 700.000 con una gamma di buoni o ottimi prodotti proposti millesimati o in cuvée, in bianco o rosè.
Ricorderei la 1522 creata per commemorare l’anno in cui la famiglia si trasferì nel comune di Ay, ricavata da grand cru per il bianco e da premier cru per la versione rosè. Ottimo lavoro eseguito anche per Grand Blanc (Blanc de blancs) e il Reserve (cuvèe con parecchio pinot noir) entrambi millesimati quando le annate lo consentono. Se no rimangono i piacevolissimi reserve rosè o la cuvèe Moon, all’altezza delle aspettative richiamate dal blasone della Maison. E per finire due chicche originali quali il Sublime , blanc de blancs millesimato leggermente dolce, un “sec” dagli aromi di frutta bianca matura miele e limone candito, 100% Chardonnay derivati dallacelebre Côte des Blancs (Cramant, Le Mesnil-sur-Oger, Vertus), vinificati in modo tradizionale senza l’uso di legno, parzialmente senza fermentazione malolattica. Invecchiamento prolungato sui lieviti in bottiglia, alla temperatura costante delle cantine Philipponnat.
L’altro must è rappresentato dal Clos de Goisses rosè, 30% Chardonnay e 70% Pinot Noir. Produzione limitata dalla selezione rigorosa fra le uve di 15 parcelle di una sola vigna. Vino importante e per me indimenticabile, l’ultima cosa che ho bevuto insieme a Madame Leroy, e da li la sua celebre domanda affermazione: Mais pourquoi mettre des bulles dans le bon vin!
Inoubliables , Lei e il Clos de Goisses !
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