Via Rosario Senatore, 30
Tel. 089.466441
Chiuso domenica sera e lunedì. ferie variabili in estate.
pappacarbone@libero.it
La dittatura della materia
Se sei stato a bottega da Ducasse e hai come punto di riferimento Santi Santimaria che bussa spesso al tuo ristorante è facile trovare l’aggettivo per definirti: semplice. Come nel vino sta emergendo con forza una corrente naturalista, talvolta biodinamica, altre purtroppo caricaturalmente neopauperista o enosnob, il più delle volte invece giustamente preoccupata di definire l’eleganza e la bevibilità la cui espressione più alta è rappresentata in questo momento dai due curatori della guida dell’Espresso, Ernesto Gentili e Fabio Rizzari. Bene, così nella ristorazione cresce l’insofferenza verso le spume, i sifoni, la materia scomposta e occultata, gli abbinamenti forzati, l’azzeramento della consistenza e via dicendo.
C’è da dire che mentre per chi si occupa di vino c’è soprattutto il problema di definire questo modello di equilibrio naturale aiutandolo a formarsi essendo stati gran parte dei primi venti anni dalla viticoltura italiana dominati dalla marmellata e dalla morbidezza, per i gastronomi è molto più facile avere riferimenti diffusi sul territorio e popolari perché la maggior parte degli italiani hanno ancora ben chiaro cosa significa materia prima di qualità.
In genere la Campania è schierata quasi totalmente su questo fronte, difficile trovare spume e fois gras in giro per citare due opposti, tutti gli chef preferiscono giocare sulla forza intrinseca dei prodotti, soprattutto quelli di un mare molto sapido e roccioso e quelli nati sulle sabbie nere vesuviane e l’argilla o il tufo vulcanici.
Rocco è, per usare un termine parlamentare, l’ala estrema di questo schieramento e qui troverete anzitutto il suo bottino quotidiano che lo spinge a pescare ricci, fare anche cento chilometri quando dal lontano Cilento arriva la telefona della ricciola da venti chili, meglio di un salmone ve lo assicuro, passare un’oretta con il babbo (alla toscana) per fare orto e presentare solo ortaggi di propria fattura, comprare le olive sull’albero e attendere che diventino olio. Tutto questo non è una favoletta, ma la realtà che posso testimoniare in presa diretta in quanto Rocco è il fratello di un mio caro collega dell’Ansa, il mitico Martino Iannone, che quando sta in Campania non ha il tempo di vedermi perché passa le giornate in queste poliedriche attività.
Il menu per Rocco è una sciocchezza e lo sta trasformando quasi in una lista della spesa: oggi triglie, lenticchie, pollo. Sedete e mangiate so io come presentarvi queste materie. Il cuoco diventa così non un manipolatore del prodotto ma un suo interprete profondo, a cui si deve rapportare, ad esempio, a seconda della sua storia: un pesce fresco è meglio crudo, frollato va appena toccato, quando inizia il decadimento si può intervenire creando e abbinando. So bene che a questo punto si apre una voragine paragonabile solo agli scontri in corso tra crociati e saraceni sul vino, ché chi sostiene l’importanza della mano del cuoco come elemento classificante della esperienza non ha certo torto.
Ed io personalmente credo che dipenda da che tipo di esperienza si cerca per poi scegliere lo stile: se desidero un pacchero al pomodoro sacramentato vado da Casa del Nonno, se ho voglia di giocare al Papavero, se cerco il classico da Don Alfonso, se l’aggiornamento da Gennaro, il richiamo della foresta è a Cetara, la novità a Palazzo Petrucci da Lino. E via discorrendo soffermandomi sul periodo straordinario e felice che stiamo vivendo in questa regione.
Da Rocco la didattica della materia prima è la prima parola d’ordine, con colpi di genio unici, come ad esempio una traccia di succo di limone zuccherato della zuppa di lentichie con cannolicchi e calamaretti capace di regalae uno sprint ineguagliabile al piatto. La didattica è anzitutto nel bancone all’ingresso dove si passa dal crudo di triglia a quello di pezzogna, a quello di seppia al lardo di maiale nero o al fiocco di prosciutto irpino: uno stile che io accentuerei come happy hour mediterranea. In questi anni che ci separano dall’ultima scheda, ovviamente, siamo venuti spesso, tra cui una volta con Enzo Vizzari durante la quale il nostro cuochino si guadagnò la stima del direttore con, pensate un po’, un risotto.
L’anno successivo fu giovane chef emergente per la nostra guida, contemporaneamente il locale ha perfettamente ingranato perchè nel centro storico di una città molto piacevole e ricca di storia, a trenta minuti da Napoli ed è punto di riferimento per gli industriali dell’Agro Nocerino. Noi abbiamo, per la cronaca, provato la parmigiana di aluzzo, saporito predone del Golfo, la pasta e patate (ovviamente quella ammischiata Vicidomini) e poi, alleluia, alleluia, un pollo. Sì, un povero, meschino, lurido pollo di cortile frollato e servito con un po’ di aceto da aglianico fatto in casa, un croccante di provolone irpino e la bietola.
Il pollo meriterebbe una riflessione a parte non meno ampia di questa scheda, atteso che è sicuramente la carne più diffusa al mondo e universale, il cui ruolo è recitato purtroppo solo nelle mense, nei fast food oppure nelle case mentre l’alta ristorazione ci propone improbabil faraone, anatre, piccioni, tutti ovviamente ottimamente selectati o giù di lì. Si è persino recuperato il pesce che si buttava ma il pollo no: quasi nessuno la ha ripreso in Italia, per mangiarlo bisogna andare nelle trattorie giuste. In questa pressa naturalistica di cui in Francia si sta discutendo molto, Rocco ha importato questa idea e con successo perché è un piatto eccezionale, anche qui conta la frollatura oltre che la cottura, in cui ciascun cliente si può facilmente trovare. Genio è colui che vede quello che tutti quanti guardano. Il punto è che, dicono che il pennuto naturale cresciuto passeggiando ha la carne un po’ tosta ed è rifiutata da colore che hanno dai quarant’anni in giù, l’alternativa sarebbero quelle cosce la cui carne si stacca con un soffio. Invece no, ed è qui l’importanza della tecnica dello chef: il pollo di Rocco è tenero, materico oltre che, questo il vantaggio, saporito, proprio come il cannolicchio mangiato ancora vivo come si faceva un tempo prima del colera. Bene, se avete voglia di fare queste esperienze, questo è il vostro posto.
I prezzi: antipasti e prima costano 13 euro, i secondi 20. Arrivando al dolce si esce con 50 euro. Non male per uno dei migliori ristoranti d’Italia, vero?
Visita del 17 giugno 2005. Ancora un colpo di reni della ristorazione campana nonostante il ripiegamento dei consumi provocati dalla depressione economica. Stavolta a Cava de’ Tirreni, una bella cittadina alle porte della Costiera Amalfitana facilmente raggiungibile da Napoli, appena 30 minuti in autostrada. Molto sonnolenta e poco sincronizzata con quanto accade nel resto del mondo, è stata investita da un ciclone gastronomico chiamato Rocco Iannone, scuola al San Domenico di Imola e da Ducasse, sodale con Gennarino Esposito e dei fratelli Cinque del San Pietro di Positano.
Nel cuore del centro cittadino medioevale, siamo a due passi dal Comune, è stato aperto questo locale dall’arredamento minimalista, essenziale, senza concessioni, dove si fa cucina di territorio vera: cura dell’orto di famiglia e continue soffiate dal porto di Cetara sono la base della rigorosa ricerca sui prodotti che è sempre la carta di identità dei grandi chef, ormai gli unici intellettuali italiani capaci di collegarsi al territorio e di esprimerlo in termini comprensibili a tutti. Si gioca allora con i sapori decisi del mare presentati in maniera allegra e scanzonata, come i totanetti su una vellutata di patate, il tortino di alici su caciottina dei Monti Lattari, bruschette con crudo di tonno o di pescespada, gnocchi di patate rosse con le vongole veraci, mezzi paccheri di Vicedomini al coccio.
Dunque chi cerca l’energia dei piatti tradizionali è più che accontentato, le presentazioni sono alleggerite senza virtuosismi e inutili barocchismi, questa la differenza tra il genio e il secchione, tra uno chef e uno stanco imitatore di mode. Deliziosi i fiori di zucca con ricotta montata e colatura di alici, quasi un finale dolce servito all’inizio mentre, a proposito della chiusura, immancabili le madaleines delle nostre letture giovanili. Il nome, Pappacarbone mi ricorda fantasie infantili tipo Gianburrasca, non è inventato ma vero, così si chiamava il fondatore della Abbazia, Sant’Alferio, che ha segnato il destino della città nel corso dei secoli.
Il solco aperto da Alfonso Iaccarino è ormai un fossato che protegge la gastronomia campana in maniera irreversibile, sorvegliato da tanti giovani capaci sparsi sul litorale da Ischia sino ad Agropoli, sin dentro l’Irpinia. Indispensabile completare la cantina per la quale non sono affatto necessari investimenti da capogiro se si cerca tra le decine di produttori del Sud in grado di offrire prodotti a buon prezzo. Siamo sui 35 euro, vini esclusi.
Come si arriva
Dalla stazione ferroviaria sono trecento metri, poco dopo il Comune. In auto uscire a Cava de’ Tirreni dalla Napoli-Salerno, dirigersi al centro verso la villa comunal. Parcheggiare e chiedere le indicazioni. Il locale è alle spalle del cinema Alambra.
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