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Mario e Luigi Vicidomini, il cognato Aniello: sono loro la sesta generazione di una storia iniziata nel 1812. Due secoli di pasta a Castel San Giorgio, uno dei distretti industriali e commerciali più importanti della Campania da quando è stata costruita la bretella Caserta-Salerno che attraversa l’Agro Vesuviano e l’Agro Nocerino per collegare l’Autostrada del Sole alla Salerno-Reggio. Per capire la differenza tra la grande produzione e l’artigianato bisogna venire qua, dove ogni spaghetto è diverso dall’altro, un modo allegro per ripassare la grande e attualissima lezione marxiana sull’alienazione capitalistica. Quando l’uomo diventa merce è estraneo al prodotto a cui lavora per quanto perfetto possa essere il risultato, l’artigiano invece ha l’anima in ogni pezzo a cui si applica. Una differenza elementare, ma ormai davvero difficile da trovare nello show business enogastronomico dove ogni industriale si traveste da artigiano e filtra la realtà attraverso abili uffici stampa. Ormai anche i produttori di merendine ogm sembrano diventati fattori sperduti nelle vallate alpine. Qui a Castel San Giorgio invece, nel cuore del paese dove di antico sono restate solo le splendide chiese e i palazzi nobiliari, qui abbiamo uno scampolo autentico protoindustriale, quando questa zona, grazie ai venti e alle acque abbondanti dei suoi terreni, era vocata alla produzione di pasta per la presenza di numerose aziende. Con la chiusura di Bottiglieri a Roccapiemonte, ormai sono passati oltre dieci anni, è rimasto solo Vicidomini.
La materia prima
Sarà meglio, come per il vino, parlare anzitutto di materia prima: la semola di grano duro viene tutta da Altamura, quella prodotta nel cuore della Murgia dall’azienda Moramarco, certificata biologica, una delle roccaforti della trasformazione del grano. La semola naturale arriva da lì come accadeva sin dell’Ottocento per essere lavorata in Campania, proprio come succede dalla fine degli anni ’80 con il pomodoro. La semola consegnata a Vicidomini non subisce più alcuna alterazione, finisce senza aggiunte direttamente nella impastatrice con l’acqua secondo dosi mantenute assolutamente segrete.
La scelta dei formati
Poi si passa per la trafila, ci sono circa 200 formati diversi anche se in questo momento nei ristoranti vanno molto di moda i paccheri, le candele e gli anelli chiamati in gergo anche calamari:come dire, la globalizzazione avanza anche quando siamo convinti di combatterla. Con la lavorazione in bronzo il risultato rivela meglio e totalmente la sua origine artigiana, manuale quasi, e la pasta assorbe sicuramente meglio il ragù e le salse in genere. Tra cui quello dei due piatti nazional-popolari di Castel San Giorgio, la braciola di capra e le polpette di San Biagio (carne di vitello, maiale, pane e intrugli vari). Lavorata con il teflon, invece, si ha una maggiore uniformità di prodotto ed in genere è quella destinata ad essere etichettata da altre aziende in cerca di verginità. Noi personalmente preferiamo questa lavorazione più moderna con i sughi di pesce perché rilascia meno amido e dunque è più capace di esaltare la freschezza del pescato. Per questo e a maggior ragione non ci ha mai appassionato veramente alcun abbinamento con la pasta fresca tirata a mano nella cucina marinara. I tagliolini con i gamberetti sono oggi l’equivalente delle farfalle al salmone di craxiana memoria. Nella cucina di mare infatti il prodotto industriale, preferibilmente spaghetti, vermicelli e paccheri, appare più affidabile proprio per il contenuto di amido sempre costante, cosa che non può si può avere con un pasta realmente artigianale. In ogni caso non bisogna essere affatto intenditori per cogliere immediatamente la differenza all’occhio, al tatto, al palato: la pasta Vicidomini lavorata in bronzo infatti in questo caso ha un colore bianco-farina, è ruvida, lascia spesso anche tracce sui polpastrelli, ed è talmente buona da voler essere mangiata senza condimento, magari solo un po’ di sale, come facevano nell’Ottocento i mangiamaccheroni nelle luride e affamate strade di Napoli.
L’essiccamento
Prima avveniva all’aria aperta. Da qualche decennio la pasta trafilata viene distesa sui telai areati e sistemata in una stanza detta Cella Cirillo dal nome del suo inventore. Per capirci, il procedimento è molto simile a quello dell’uva messa ad appassire nelle stanze dei produttori di Vino Santo sopra il Lago di Garda. Qui scatta un altro top secret, perché l’unica notizia ufficiale è che, contrariamente a quanto verrebbe da pensare, per le trafile corte ci vogliono tre giorni di essiccamento, mentre per gli spaghetti, le candele, e tutte le trafile lunghe si arriva a cinque. Nella Cella Cirillo sui telai dispiegati uno sull’altro entra in azione una specie di grande asciugacapelli senza canna. Cosa succede poi resta dunque un mistero: decisivo il dosaggio del vento in relazione al tasso di umidità, alla temperatura, alla quantità. Infina la pasta viene anche spostata di tanto in tanto. Insomma, l’avrete capito, ogni pacco è diverso dall’altro, ha una sua storia, una sua personalità.
Ora si mangia
Passiamo poi al confezionamento, in buste anonime per le altre aziende, in quelle gialle da un chilo per la Pasta Vicidomini. Ogni giorno il miracolo si ripete tra i 10 e i 12 quintali di volte e, come può accadere solo ai prodotti unici, c’è una vasta clientela affezionata di ristoratori e appassionati da tutta Italia tra cui Antonio Di Pino della Caravella di Amalfi. La domanda in genere supera l’offerta, ma il punto vendita aziendale è sempre aperto e rifornito per i clienti della zona dove i rapporti personali e gli intrecci familiari hanno ancora una valenza fortissima, decisiva come pochi altri paesi della Campania. Come i grandi uomini, anche i grandi prodotti devono fare i conti con la stupidità umana: così la legge impone a questo laboratorio di mettere le piastrelle invece di lasciare a vista le pareti di tufo, ed è naturale comprendere come sulla lavorazione e il risultato finale incida questo cambiamento, fatto in nome della paranoia igienista di stampo anglosassone ormai vittoriosa anche in Italia con l’affermazione ovunque della piccola borghesia come classe egemone. Il tufo infatti ha un rapporto con l’umidità e il calore completamente diverso delle piastrelle grazie alla sua capacità di assorbimento: mantiene il fresco d’estate e il caldo d’inverno. Sarebbe come imporre a tutti i formaggi la lavorazione in acciaio con latte pastorizzato. Ma purtroppo, e qui arrivano le dolenti note di questa bella fiaba che vi abbiamo raccontato, i pastifici campani, come gli imprenditori del vino e come quelli di tutti gli altri settori, come tutti i meridionali insomma, non hanno trovato una intesa per tutelare il procedimento di lavorazione del prodotto più famoso della regione diventato il cuore della cucina italiana e il simbolo dell’Italia all’estero insieme alla Ferrari, alla mafia, all’arte e alla musica. Così nessuno può fermare il maresciallo dei Nas quando decide di applicare ad un piccolo laboratorio le prescrizioni di una legge pensata per la grande industria.
E si beve
Parliamo dei formati trafilati in bronzo: Fiano di Avellino su paccheri, conchiglioni, candele, fusilli, tubetti, pennoni e quanto altro, cotti e serviti senza condimento, magari giusto sale, pepe e un po’ di formaggio. Gragnano, Lettere e Lacryma Christi quando la Vicidimoni è condita con i ragù tipici della tradizione napoletana, Piedirosso dei Campi Flegrei con i sughi di pesce e infine con Greco di Tufo quando schiaffoni rigati, tagliatelle, spaghettoni e penne vengono serviti con la mitica Genovese, la salsa a base di carne (il pezzo preciso è la colarda ci insegna Jeanne Carola Francesconi) rosolata per ore nelle cipolle per cui i napoletani vanno fuori di testa. Attenzione, mai vini che hanno conosciuto il legno.
L’antica tradizione dei pastifici dell’Agro-Nocerino
di Gennaro Corvino
Di quella gloriosa e grande famiglia nocerina dedita all’arte bianca non è rimasto quasi più niente. Il «quasi» è d’obbligo perché a resistere agli attacchi delle metodiche computerizzate è rimasto soltanto Raimondo Vicidomini i cui antenati cominciarono a fabbricare pasta già nel 1812. Tutti gli altri sono scomparsi dopo oltre un secolo di proficuo lavoro. Nocera Inferiore ha avuto la presenza dei soldati nella caserma Tofano, una fiorente industria pastaia e una produzione di confetti la cui ricetta è stata tramandata dalla famiglia Costabile di padre in figlio senza svelarne il contenuto e, appunto, i pastifici. Dell’arte bianca purtroppo non c’è più traccia: qui c’erano infatti pastifici che producevano spaghetti e ditoni, tagliatelle e «schiaffoni» inviandoli non solo in Italia ma in tutto il mondo. Gli emigranti, prima degli anni Venti, venivano a Nocera e se ne ripartivano portando con loro il «pacco» di cinque chili di zitoni e vermicelli della loro città. Le case madri della pasta lunga e corta di Nocera Inferiore erano numerose. C’era, ad esempio, quello della famiglia Vitolo, gestito da una signora bassina e arzilla, conosciuta come «Chicchirinella». Il marito faceva tutt’altro mestiere, funzionario di banca. I grandi pastifici invece erano quelli di Gabola, Nobile, Rossi, Bottiglieri e Vicidomini. Oltre a fornire la pasta ai soldati di Nocera accoglievano anche i clienti che da tutto l’Agro Nocerino raggiungevano la città e quindi le fabbriche con i carretti a balestra tirati da cavalli mentre i «traini» erano tirati da muli o da somari. I pastifici erano a Paterno, Castel San Giorgio, Siano, Nocera e Roccapiemonte. I clienti arrivavano di buon mattino, caricavano le diverse specie di pasta e tornavano in paese per distribuirle alle botteghe. Durante l’occupazione tedesca il pastificio Gabola fu saccheggiato dalla folla affamata, il pastificio Nobile invece fu incendiato. Tutti continuarono a produrre fin dopo la guerra, poi scomparvero. Ma alla periferia di Nocera Inferiore, esattamente a Materdomini, di fronte al manicomio a Roccapiemonte e a Lanzara, due altri pastifici hanno prodotto ottima pasta fino a pochi anni fa: Bottiglieri e Vicidomini. I figli di Bottiglieri, tutti professionisti, si sono dedicati ad altre attività chiudendo lo stabilimento, mentre i Vicidomini invece lavorano ancora. Il loro stabilimento è alla via Guerrasio di Castel San Giorgio. Lo guida Raimondo Vicidomini, quasi settantenne. Resiste perché ha modernizzato i suoi macchinari, ha sostituito le braccia con apparecchiature competitive e mantiene anche un suo mercato tutto particolare. Fornisce pasta ad ospedali ed enti di consumo. Nel giorno di San Biagio, il 3 febbraio, Raimondo Vicidomini distribuisce le sue «candele» alla gente della parrocchia di Lanzara: si tratta di pasta lunga e bucata di mezzo metro che viene spezzata per essere poi cotta e mangiata con il ragù dalle famiglie della zona durante le feste patronali. I pasticifi Vicidomini erano presenti fin dal 1812, ma di aziende produttrici ce n’è una soltanto, quella di Raimondo. L’altra, quella di un suo zio, è stata chiusa una decina di anni fa. Era a Materdomini. I pastifici Nobile e Bottiglieri, Gabola, Rossi e Vitolo sono definitivamente scomparsi. Attualmente vi sono dei piccoli artigiani in quasi tutti i paesi. Preparano fusilli, orecchiette, gnocchi, pasta fresca, tutta su ordinazione. Le tagliatelle, gli ziti, i mezzanini, li produce oramai solo Raimondo Vicidomini. Un’ultima annotazione: i locali dell’ex pastificio Rossi sono stati trasformati quasi tutti in abitazioni civili. Il Gabola in fondo a Corso Vittorio Emanuele di Nocera Inferiore è stato acquistato dall’amministrazione provinciale e trasformato in istituto tecnico industriale. Il Nobile è diventato anch’esso scuola, anche se solo in parte.
Il Mattino, agosto 1998