Via Caracciolo 13 in località Sant’Eustachio
Tel. 089.894399
www.casadelnonno13.com
Sempre aperto, chiuso lunedì
Ferie nella seconda metà di agosto.
Di questo covo del gusto si è già detto tutto. Casa del Nonno 13 è un riferimento sicuro per chi ama il mangiare di tradizione coniugato alla sapiente e certosina ricerca dei prodotti.
Sembra un mangiare di pancia ma in realtà è un teorema di testa, a cominciare dal contesto presepiale in cui sono inseriti i piatti, ambiente che trancia subito un netto confine tra esterno e interno, quasi una sospensione nel tempo, il ritorno a miti infantili di caverne e di cantine irte di pericoli e usate per coltivare i primi vizi che allontanano dall’innocenza.
Raffaele Vitale ha l’istinto e l’elasticità propria delle terre in cui è nato, l’agro vesuviano, vera solfatara antropologica, ma anche la cultura di poterle guardare dall’alto, in una visione di insieme. In una parola, come si dice, “tene ‘u cerviell”.
E in effetti riflettevo come sia cambiato sotto gli occhi della mia generazione la figura dell’oste: da competitor della cucina casalinga, da fornitore di servizio, sfamare studenti e viandanti, commessi e intellettuali, alla attuale vocazione monacale.
Monacale? Già proprio così. In questo medioevo gastronomico in cui i barbari sono arrivati dall’Occidente, il sapere delle case un tempo diffuso e capillare, sostanzialmente femminile, si è trasferito in poche casematte. Un po’ come i libri, la vite e le culture lasciarono le città per rifugiarsi nei conventi e nei monasteri dopo la fine dell’Impero.
Dunque Raffaele, e tanti, però non troppi quanto dovrebbe , come lui, sono diventato i depositari di un sapere che si sta per disperdere salutando il quotidiano.
Le mie mangiate sono passate rapidamente dal raffronto con le abitudini quotidiane della comunità alla memoria di quello che si faceva nella società rurale che sopravvive attraverso la trasmissione orale.
Mi rendo conto che andare in una trattoria con questi presupposti può diventare una pippa. Però le cose stanno proprio così: l’arte del conservare il cibo è stata delegata all’industria che l’ha standardizzata, omologata, legiferata e spesso anche avvelenata. La coltura della biodiversità, cioé del cibarsi trasmettendo gli umori del terreno, è sempre più un lusso per pochi fortunati.
Al tempo stesso i ceti popolari hanno assorbito dagli anni ’60 in poi, attraverso Carosello, una visione antitetica a quella del buon mangiare e del cibo che fa bene oltre ad essere buono.
Il lumpenproletariat napoletano un tempo magro e affamato oggi è chiatto e usa con gli stessi alimenti che si mangiano in tutto il resto del mondo. Ed è incredibile la quantità di schifezze e di orrori che si vendono in un bar e in un tabaccaio, tanto che in un paese normale andrebbe tutto sotto sequestro.
Insomma, prima la trattoria era il mangiare popolare, oggi è una abitudine gastronomica e culturale. Mi chiedo se questi posti abbiano solo forza di memoria per chi è dai 45 in su o se, invece, hanno valore assoluto anche per i giovani.
Un dato è certo, questo sapere, un tempo diffuso e naturale, oggi richiede la stessa ricerca che si fa in un ristorante gourmet di tipo classico. Nulla di meno, solo che lo sbocco diventa la semplicità essenziale di un tempo con qualche guizzo che possa divertire e incuriosire.
Dunque posti come Casa del Nonno 13 dovrebbero essere sottoposti a vincolo della Soprintendenza come una biblioteca certosina. Sono i custodi di una memoria papillosa un tempo generalizzata oggi assediata. Domani chissà.
Ecco perché Casa del Nonno 13 è un tuffo nel passato, un ritrovare emozioni antiche con rinnovata consapevolezza. Dal San Marzano alle fritture, alle zuppe e alle paste.
Bisogna notare che questo risultato di eccellenza non si consegue con immobilismo e conservatorismo. Antiche trattorie che non sanno neanche cosa sia il 2.0 esistono ancora, sono commoventi, ma sono come i Mammuth destinati ad estinguersi.
Il vero sapere del passato, la manualità e la gestione della materia prima non può non passare che attraverso una riappropriazione culturale. Proprio come è accaduto con l’olivicultura e la viticoltura.
C’è poi anche un altro aspetto da considerare che trovo molto interessante: man mano che passano gli anni il pubblico naturale di queste trattorie, ossia quelli che queste cose le hanno viste da bambini nei vicoli vicino stazioni e università o nei paesi, è destinato naturalmente a restringersi sempre di più.
Dunque la rieducazione al cibo, ancora una volta come è accaduto con l’olio e il vino, passa anche attraverso la nuova consapevolezza del consumatore.
Ma quale scenario allora è possibile immaginare da qui a qualche anno, diciamo dieci o venti? Forse il più realistico sarà un cibarsi multietnico omologato dalle grandi catene, un po’ come è il grande circo gastronomico del Carousel du Louvre a Parigi. Coloro che apprezzeranno il pacchero al San Marzano saranno come una comunità che parla latino in un mondo che usava altre lingue.
Del resto i gusti sono destinati a cambiare. L’altra mattina un ristoratore che fa solo cucina borbonica mi diceva che molte ricette di un tempo, appena 150 anni fa, devono necessariamente essere rielaborate perché improponibili ai palati odierni.
Se pensiamo che fin dallo svezzamento le industrie degli omogeneizzati hanno abituato alla morbidezza e alla dolcezza sin dagli anni ’60 in Italia come valori di media assoluti, ci rendiamo conto che già adesso alcuni cibi molto in voga trent’anni fa oggi sono improponibili ai più.
OT. Segnalo con piacere il nuovo spaghettone Vicidomini: fantastico di buona tenuta al dente.
Il cambiamento sarà sempre più radicale, per cui l’invito che posso fare, forse un po’ egoistico, è molto semplice: godiamoci queste cose finché siamo in tempo.
Poi so’ cazzi (qui vuol dire: problemi) di chi resta
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