Il mondo dei cuochi è croce e delizia. Ne troviamo alcuni, in genere scarsi, che per dimostrare di essere bravi propongono risotti (scotti) e pasta ripiena, dimenticando l’anima della nostra cucina italiana, la pasta secca. Altri che espongono orgogliosamente a tavola burro di Normandia dimostrando di non sapere che non solo il vero cuoco si conosce dall’olio d’oliva che usa e dall’attenzione a questo alimento, ma che c’è dell’ottimo burro anche in Italia e persino al Sud. C’è chi poi fa menu senza pomodori come se fossimo nel Nord della Scozia.
Molti cuochi hanno insomma le idee confuse, pensano che gerarchicamente riso e burro siano superiori a pasta secca e olio d’oliva in una inesistente scala di valori dei prodotti nonostante il vento del Nord abbia usato bacche e radici, bucce di patate e licheni come bandiere.
Poi ti fai un giro fra Uliassi, Cannavacciuolo, Bartolini, Cedroni, Cerea, Di Costanzo, Ciccio Sultano, Esposito, Don Alfonso e vedi che tutti i grandi hanno un piatto di pasta secca, lavorano il pomodoro e ti mettono l’olio a tavola in degustazione.
Com’è?
Semplice, molti cuochi della fascia medio bassa e tali destinate a restare nonostante le ambizioni social e televisive, non si aggiornano e sono ancora vittime di luoghi comuni fatti circolare negli anni scorsi da critici che non conoscevano (e non conoscono) la pasta e il pomodoro venendo dalla cultura gastronomica dei grassi animali. Critici secondo i quali per avere la stella Michelin bisogna nascondere la propria identità italiana e far finta di essere francesi. Questo, almeno, andavano consigliando, benchè smentiti dai fatti.
Molti vivono quella che io chiamo Sindrome del Colosseo, ossia un monumento straordinario che per chi vive a Roma è ordinario. Così la cultura della pasta, che ha più di tre secoli e che richiede alta specializzazione, capacità di reperimento della materia prima. Insomma, tanta cultura per nulla scontata.
Questi luoghi comuni continuano ancora oggi ad essere vivi tra persone che non si aggiornano, che non sanno per esempio che il pomodoro è divenuto oggetto di studio nell’alta ristorazione da Lisbona a Mosca passando per Copenhagen o che il più grande cuoco francese, Alain Ducasse, ha appena codificato la cucina mediterranea attribuendo all’olio d’oliva una funzione decisiva nel futuro della cucina eco compatibile e sostenibile.
Olio, pasta, pomodoro e vino sono il miracolo mediterraneo che si rinnova ogni anno da giugno a ottobre e novembre, la base di ogni nostra storia, di ogni nostro ricordo, sono i prodotti identitari che ti spiegano subito da chi stai mangiano. Lo sanno bene i cuochi italiani all’estero che su questo non hanno alcun dubbio e sperimentano continuamente piatti con questi ingredienti.
Per capirlo bisogna avere una visione d’insieme, non televisiva ma matura e professionale, dell’evoluzione della cucina mondiale che vede in corso una progressiva semplificazione e riduzione degli ingredienti presi da ogni parte del globo perché mai come in questi ultimi anni è stato possibile far viaggiare i cibi.
Il tema riguarda sia la ristorazione di servizio che il fine dining perché nel primo caso questi prodotti assicurano piatti sani e salutari oltre che assolutamente sostenibili. Nel secondo caso bisogna dare ormai per contato che le tecniche sono patrimonio di tutti e che a fare la differenza è il prodotto. Solo il prodotto. Niente altro che il prodotto. Se io vado in un posto è perché cerco cose che a casa non posso avere, il concetto che muove il turismo gastronomico è l’identità, un risultato che a cui si arriva sicuramente con tecniche performanti ma sempre partendo dalla ricerca del prodotto di qualità, possibilmente biologico e selezionato a cerchi concentrici. Prodotti che non si trovano sui cataloghi ma girando nei mercati e nelle pescherie, creando rapporti diretti con i fornitori.
Il cuoco che aspetta il filetto già tagliato è una figura scialba, priva del gusto della ricerca, la sua cucina è noiosa e si disegna un futuro di cuoco da operetta.
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