di Marco Contursi
Proprio l’altro giorno leggevo su Repubblica, la divergenza di opinioni tra Allan Bay e Peppe Guida sulla opportunità o meno di approvvigionarsi dal mercato globale, rappresentato da società che forniscono ai ristoranti tutto o dal mercato locale, fatto spesso di piccoli produttori.
Ora, premesso che non condivido nulla di quello che dice Allan Bay sulla ristorazione, poiché credo abbia una visione della ristorazione da bocconiano settentrionale, ossia per lui un ristorante è una grossa impresa, con tanti attori e comparse, votata solo al profitto e con una clientela facoltosa. E questo è vero forse per una ristretta minoranza di clienti facoltosi o appassionati.
Se non la pensasse così non si spiegherebbero affermazioni come “Se uno chef è in giro a promuovere il suo locale, che è il suo compito prioritario”, “sono più guardingo in trattoria dove non ho il coraggio di mettere il piede in cucina”, “meglio un pasto in un grande ristorante che 10 in trattoria”, senza dimenticare che nella querelle su Landi, il cuoco licenziato per non aver voluto servire pasta scotta, Bay si è schierato contro questo purista ricordando che il cliente ha sempre ragione.
Ma le cose non stanno così. Un ristorante non è solo una impresa ma ANCHE una impresa.
Questo perché, oggi, se non lo fai con passione e guardi solo i sacrifici fatti e il guadagno, il 70% dei locali chiuderebbe poiché non ci sono più gli incassi di una volta e i sacrifici sono aumentati.
Questo perché, un ristoratore vero, è uno che ha cura del cliente pure se di passaggio e sa che non lo vedrai più e quindi se ti dice che il vino non gli piace, tu gli cambi la bottiglia, dimenticando la massimizzazione del profitto.
Questo perché il compito di uno Chef è stare soprattutto ai fornelli, non a fare il “fareniello” in giro o in tv, perché sono pochi i locali che si possono permettere grandi brigate, perché, al sud, i Grandi (Esposito, Caputo, Guida, Iaccarino…) li trovi in cucina a sgobbare e non a fare le prime donne con la divisa pulita, perché se il cliente va in un locale e non trova lo chef, gli girano i cabassissi.
Questo perché ci sono locali in piccoli paesi che restano aperti per offrire un servizio, fosse pure solo far mangiare tutti i giorni i 4 carabinieri della locale stazione.
Questo perché le trattorie sono le vere depositarie della cultura gastronomica italiana, fatta di piatti che raccontano una storia che spesso si fonde con le vicende socio storiche di un paese. Quindi, la cassata ad esempio, è il risultato delle varie dominazioni che si sono succedute in sicilia e racconta mille anni di storia, mentre un dolce inventato oggi da uno chef, per quanto buonissimo mi racconta solo di questo chef, che non è poco, ma vuoi mettere con 1000 anni. Ci vuole rispetto per le trattorie, certo non tutte sono all’altezza ma mai generalizzare.
Questo perché il cliente, se vuole mangiare quello che ha in testa, mangia a casa sua o si prende un personal chef. Un ristorante ha una offerta precisa ed uno è libero o meno di accettare, non è libero di rompere le scatole perché paga. Il pago-spendo-pretendo lasciamolo al grande cumenda Nicheli.
Questo perché fare la cacio e pepe con olio o burro è una bestemmia, che la dice lunga…
Premesso tutto ciò, dico che nella scelta tra globale e locale va usato il metodo dei cerchi concentrici. Partendo da una cucina locale e fatta con prodotti locali, posso allargarmi sempre più se localmente un ingrediente non lo trovo, fino ad arrivare in Australia se voglio preparare un piatto col canguro.
Ma poi, riflettendo, ha senso fare canguro al forno a Sorrento? Io dico di no, a meno che non si tratti di un locale che fa della carne esotica il suo punto di forza. Ma se io vado in un locale sorrentino, sia esso trattoria o stellato, mi aspetto di trovare prodotti del posto che non trovo altrove e quindi limone femminiello, provolone del monaco, pescato locale ecc.
Questo perché, la vera risorsa di un ristorante, oltre alla bravura dello chef, sono i prodotti, diversi da quelli che trovo altrove.
A comprare roba costosa sono buoni tutti, ma c’è il rischio di omologazione. A meno che un locale, non sia il solo in zona, ad usare determinati prodotti a catalogo (esemp Joselito) e quindi riesce ad avere una sorta di esclusiva che può quindi portargli clienti (che amano il joselito). Ma basta che un locale vicino fa la stessa scelta commerciale e addio esclusiva. Oltre che spesso l’uso indiscriminato del catalogo è un modo per ovviare alla mancata capacità di operare scelte in autonomia. E’ come il cliente, ignorante di vino, che compra la bottiglia costosa, sicuro che berrà bene. Ma non sempre è cosi. Proprio recentemente ho provato dei salumi da catalogo, costosissimi e pessimi, spacciati da chi li aveva acquistati per vere prelibatezze. Questo perché il l’ acquirente non aveva gli strumenti culturali per fare una serena valutazione, che prescindesse dal nome e dal prezzo.
Se, faccio un esempio, grandi ristoratori da Nord a Sud mi facessero trovare la stessa guancia brasata o lo stesso erborinato nel piatto di formaggi, a me le scatole girerebbero: per quanto preparata diversamente certi sapori si assomigliano quando la materia prima è la stessa.
La verità è che spesso siamo di fronte a una omologazione dei sapori che è una cosa tristissima in Italia, così ricca di biodiversità alimentare.
Oltretutto, comprare tutto a catalogo non aiuta l’economia locale, oltre a creare malumori tra i produttori del posto che, in molti casi, sono poi i primi clienti di questi locali. Se io, pescivendolo vicino, vedo che al tuo locale scaricano dai furgoni casse di pesce e da me non compri una alice, sarò il primo a boicottarti. Al sud funziona così.
Che poi nulla vieta di usare prodotti non locali, ad esempio pasta o un formaggio se nelle mie zone non c’è. Ma sempre con criterio e integrandolo in un menù con largo uso di prodotti del posto.
Il modello di Bay, ossia comprare tutto a catalogo, ha senso di esistere solo nei grandi ristoranti di città come Milano o Roma, dove l’affluenza è sempre tantissima, la clientela particolare e l’approvvigionamento locale è difficile. Ma partendo da questo, arrivare a dire “Beato chi trova fornitori di agnello locali ma a norma, cioè col bollo UE” ce ne passa. A norma si trovano, eccome, poiché anche il produttore locale ha un codice stalla e macella in una struttura autorizzata. Qui nessuno parla di andare dal vecchietto che fa abusivamente 4 caciocavalli nella tinozza dietro casa. E tranne pochissimi posti che fanno una cucina internazionale, tanti della grande ristorazione italiana Don Alfonso, Nonna Rosa, Dal Pescatore, 4 Passi, Taverna del capitano, Ciccio Sultano ecc.. usano prodotti locali o comunque di piccoli produttori italiani. O addirittura se li producono in proprio, a garanzia piena di freschezza e qualità. Poiché il cliente, soprattutto se internazionale questo vuole: quello che non trova dalle sue parti. Può un giapponese desiderare di mangiare manzo di Kobe a Roma o un Francese bere champagne a Napoli?Suvvia, siamo seri.
Inoltre, la tecnica deve essere al servizio della materia prima e non viceversa. Che senso ha comprare la stessa pancia di maialino, e poi dover cercare di renderla unica con cotture fantascientifiche, quando comprando da un produttore che non fornisce altri, e fa qualità, io sto gia a ¾ del lavoro?
Quindi, nessuna demonizzazione dei cataloghi, che però solo in rari casi (esemp braceria che tratta carni estere) possono trovare una valida spiegazione al loro uso massivo. Diverso è comprare qualcosa perché non facilmente reperibile altrimenti. Qualcosa, non la spesa per tutto il menù. E largo uso di prodotti locali, italiani, di qualità naturalmente. Anche perché in certi campi, siamo davvero i migliori. Ma lo siamo quando si parla di piccole produzioni, poiché sono pochissimi i prodotti realizzati in gran numero che mantengono inalterata la qualità e le produzioni a catalogo difficilmente possono rientrare nei piccoli numeri. Oltretutto a comprare a catalogo, si spende molti di più poiché se tutti di un vitello vogliono solo il filetto o di un maialino la pancia, da questi pezzi ci deve uscire il costo di tutto il resto dell’animale che finirà in hamburger e salsicce. E oltre ad essere antieconomico e anche contro le politiche ambientali e di una corretta gestione zootecnica.
Io adoro il Joselito. Ma mi dà molta più soddisfazione trovare un buon salume di un produttore locale. Soprattutto se l ho scoperto io. Soprattutto se ce l’ ho solo io.
p.s. A catalogo potete trovare tutto ma non le meravigliose graffe che fa Peppe Guida. Altro che kobe, si squagliano in bocca.
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