Shiitake, Mirin, Nori, katsuobushi, wasabi?
Macchè: finocchietto selvatico, basilico, tre tipi di mentuccia, nepitella e rosmarino, origano, capperi e fiori di capperi. Sono queste le erbe della macchia mediterranea usate da Maria Mazzola della Torre a Massa Lubrense per gli spaghetti con le cozze alla marinara, il migliore che sinora abbia mangiato nella mia vita.
Un esempio di sapienza rurale della Penisola Sorrentina che si sta progressivamente perdendo. Maria fa una cucina semplice, certamente non ha le tecniche dei polli di batteria usciti dalle sedicenti scuole cucina dove impera l’omologazione dei prodotti che le sponsorizzano, ma il suo piatto ha qualcosa che è difficile trovare altrove: la verità del territorio dove nasce. E questa verità, questa semplicità, fa la differenza.
In questi giorni estivi mi piace girare per agriturismi, in quelli che hanno la passione dei proprietari scopro una ricchezza di piatti, una capacità di fare ricette di recupero, l’uso sapiente delle erbe e degli odori che da sempre hanno condito il nostro mangiare sino all’appiattimento industriale dell’ultimo secolo. Dalle patate cunzate alla minestra stringata, è tutto un fiorire di sapiente conoscenza del bosco e della natura che ci circonda.
Ultimamente Michele Ferrante, il papà del fagiolo di Controne, ha iniziato ad imprigionare gli odori del mediterraneo con la tecnica dell’essiccamento ed è davvero incredibile la ricchezza di odori e sapori che si riescono a catturare nell’aria per portarli nel piatto.
Ora il mio non è un discorso passatista o di chiusura: da sempre il cibo viaggia con l’uomo. Ma se con la scoperta dell’America il nostro patrimonio sensoriale si è arricchito, in quest’ultimo decennio, con il cibo e gli odori che viaggiano più velocemente, si è impoverito. Perchè?
Purtroppo la risposta è sempre la stessa: perché le spezie e il cibo oggi sono soprattutto ed esclusivamente merce sicché per un cuochetto provinciale che se la vuole sparare con il cliente ancora più ignorante di lui è molto facile scegliere a catalogo e fare la parte di chi sa tutto invece di fare ricerca sul suo territorio.
I cataloghi di cibo stanno alla cucina come il Bignami stava alla cultura generale: semplificano, banalizzano, omologano.
Ecco perché per me oggi ha molto più valore un semplice piatto di cozze marinate e servite con la pasta dei nuovi menu fusion, tutti uguali, tutti con gli stessi odori, che non mi fanno capire dove sono: a Napoli? A Roma? A Milano? In qualche cesso delle stazioni di servizio?
Da sempre la cucina è sperimentazione, i veri grandi cuochi studiano e conoscono benissimo il patrimonio di odori e di erbe che li circonda e, quelli si, sanno come inserire le novità che vengono dall’Oriente o dall’America Latina senza diluire la propria identità professionale. Allora si, ha un senso la fusione, quando cioè due culture si incontrano e si miscelano, non quando l’una prende il posto dell’altra come le case di cemento al posto delle case in pietra.
Solo chi conosce davvero la ricchezza del proprio patrimonio territoriale può assimilare quello degli altri senza perdere la personalità.
Purtroppo, oggi, siamo su una china davvero pericolosa: può capitare di mangiare in ristoranti italiani senza capire che stiamo in Italia. Il guaio è che non stiamo manco in Giappone.
Siamo su Scherzi a Parte.
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