di Luciano Pignataro
Ieri un nostro post ha fatto molto discutere, quello sulla spesa al mercato e molti ristoratori (più di quelli che pensavo) si sono sentiti punti nel vivo, qualcuno che non ha mai fatto la spesa è sceso a livelli infimi di linguaggio, evidentemente degno dei suoi piatti noiosi, qualche altro ha cercato di argomentare.
Un mio ex caporedattore diceva che se qualcuno non si arrabbia dopo aver letto quello che hai scritto vuol dire che avevo fatto un articolo inutile. Beh, devo dire che davvero abbiamo trattato un nervo scoperto.
Alcuni hanno detto vieni tu a tenere un ristorante e a far quadrare i conti, altri che non si è certi della provenienza delle materie prime neanche al mercato, altri ancora hanno accusato i colleghi di ogni tipo di nefandezza e di imbrogli, salvo poi a stare zitti quando si tratta di fare nomi. I leoni della tastiera messi di fronte ai fatti tacciono sempre o insultano.
Eppure a me non è sembrato di aver detto nulla di straordinario. Ho solo ribadito che oggi la differenza tra i cuochi è fatta non solo dalla tecnica ma soprattutto dalla capacità di rapportarsi direttamente ai fornitori senza passare unicamente da grandi selezionatori che fanno sicuramente qualità ma che hanno, a contraltare, una omologazione della proposta e dei sapori. Se Don Alfonso non avesse inserito l’olio d’oliva e il pomodoro nella sua cucina non sarebbe stato Don Alfonso e non avrebbe dato il via al grande movimento della rinascita della gastronomia del Sud.
Ho sostenuto che cucinare in zone di forte produzione agricola e di biodiversità, come il Sud, è sicuramente un vantaggio per chi ha voglia di esprimersi in maniera originale che spinga al viaggio il gourmet appassionato.
Che fare bene la spesa comporta un forte risparmio sui costi di gestione. Un buon cipollotto nocerino vale mille costosi black code che trovo nel rifugio valdostano come nel sushi milanese.
Tutto ciò non vuol dire criminalizzare chi acquista alla Metro o si fornisce dai rivenditori Selecta, Longino, Jolanda e C. Significa semplicemente dire che la tendenza della gastronomia mondiale punta all’orto, alla riscoperta delle produzioni locali, alla valorizzazioni delle espressioni di un territorio. E che se si ha voglia di emergere davvero bisogna fare la spesa, sfasciare animali, sfilettare pesci come facevano le nostre mamme ogni giorno. Sicuramente è più faticoso, ma non si diventa famosi con i like su Facebook o le comparsate in Tv, bensì con il duro lavoro. Proprio come avviene in ogni lavoro.
E’, per parlare del mio settore, la differenza tra chi si muove in prima persona macinando migliaia di chilometri, parla con gli interessati e chi si accontenta del copia e incolla di comunicati che arrivano via mail o di articoli su altri siti.
Ma l’obiezione più irritante è stata un’altra: quella di rigettare la colpa sui contadini che non sono in regola. Una favola metropolitana che non ha alcun riscontro perché oggi le aziende agricole italiane sono sottoposte come tutti ai controlli fiscali, ambientali e sanitari come nessuno al mondo e, per operare, devono per forza stare in regola.
Se ci si riferisce al singolo che coltiva il suo orto è un discorso, ma signori, basta andare in uno dei mille mercati che la Coldiretti apre ogni giorno per trovare quello di cui si ha bisogno. Per non parlare dei presidi Slow Food.
Ecco allora il male italiano: se non facciamo qualcosa non è colpa della nostra pigrizia, ma sempre degli altri. Soprattutto, magari, dei giornalisti cattivi. Invece è la mancanza di passione il vero guaio di tanti mediocri. Nella ristorazione come nel giornalismo.
Sapete cosa mi viene da dire ad alcuni ristoratori?
Prendete esempio dai pizzaioli che, con la loro intelligenza, hanno rilanciato un settore e favorito la rinascita di tanta agricoltura e di qualità.
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