E’ una bella estate di San Martino. In Irpinia, finalmente, la vendemmia è pressoché terminata. Tradizione vuole che la si incominci, infatti, “dopo i morti” perché per allora l’aglianico è maturo. Il freddo è secco ma il sole splende alto.
Paternopoli, nell’alta Valle del Calore irpino, si è fatta lentamente strada negli ultimi anni, accanto a Montemarano e Castelfranci, per essere terra di origine di Taurasi longevi ed eleganti. Si tratta di una cittadina sonnolenta, troppo profondamente ferita dal disastroso terremoto dell’Ottanta, e dall’ancora più bieca ricostruzione, per essere bella.
Paternopoli, come molti altri paesi d’Irpinia, per chi la conosceva prima, è, oggi, un sospiro. Una lacrima versata per tutto quello che non c’è più o che magari poteva essere. La sua Cattedrale si erge su una piazza praticamente ritagliata intorno ad essa e alla sua scalinata.
Alcuni vecchi seduti fuori dalle case lungo la strada in salita che vi conduce hanno passato la loro vita chiacchierando e fissando quest’angolo. Come in ogni paese, anche qui, tutti vedono e sanno tutto. Cose come chi è in visita alla “casa più grande sopra a tutto”, dai Famiglietti.
Sulla piazza, a tre passi dai gradini della Cattedrale, si apre il cancello di casa loro. L’edificio settecentesco è sopravvissuto, nel dopo terremoto, a una serie di assurde ordinanze di abbattimento che avrebbero voluto spazzarlo via per far spazio a un parcheggio. Solo l’ostinazione del signor Nicola, di sua moglie Laura e dei loro figli ha evitato che con il forno per il pane, la cucina in maioliche e il camino originali, i registri e gli album di famiglia datati a partire del Seicento, e tutto il resto, fosse spazzato via un pezzo di storia del paese.
La vite americana che tappezza la facciata in pietra viva del palazzo offre un alloggio ai passeri nei pomeriggi freddi. Il tocco di una campana o un battito di mani li fa sollevare in volo tutti insieme. In autunno la rigogliosa pianta rampicante trasforma i vicoli circostanti in un tappeto di foglie rosso fuoco. Seguendolo, si arriva nella cantina che è più in basso rispetto alla casa scendendo dalla piazza Sottochiesa.
Dimora di famiglia, vigna, oliveto, cantina, frantoio e foresteria. Tutto questo, condito da una genuina e garbata ospitalità, sono i Famiglietti, famiglia originaria di Frigento che in Irpinia è stata di marchesi latifondisti, di contadini proprietari, di medici e di architetti.
A Paternopoli rappresentano un po’ il punto di aggregazione intorno al quale si riunisce la locale comunità. Sull’aia della azienda si discute, si danza, si beve, si affettano salumi, si accendono fuochi, si mette a colare il caciocavallo impiccato e si ride tutto l’anno. Per la Macenata, festa annuale della vendemmia, per l’apertura del frantoio, per la venuta di una personalità o per una mostra d’arte.
Al lavoro in frantoio:
In questi giorni è stato aperto il frantoio al quale, ogni anno, accorrono da vari paesi per molire le proprie olive secondo una consuetudine che si è tramandata per secoli. E’ stato il primo impianto elettrificato della provincia di Avellino, come documenta un certificato incorniciato alla parete.
Ogni stagione vi entrano e vi sono lavorate 2000 quintali di olive, delle quali circa 200 della famiglia.
I fratelli Anna Maria e Marcello sono stati tra i promotori della Dop Ravece – Irpinia Colline dell’Ufita. Al fianco del padre Nicola, hanno deciso di abbandonare le proprie professioni per dedicarsi al recupero delle terre di famiglia avviando, nei primi anni Novanta, un complesso progetto che inizia in questi anni a regalargli grandi soddisfazioni. Aiutati da alcuni operai sono continuamente impegnati tra casa, azienda e campagna.
Qui (in località San Pietro), a solo un paio di chilometri dall’aia dalla quale un tempo si potevano abbracciare con lo sguardo i possedimenti di famiglia (300 ettari in un pezzo solo), si trova il vigneto con i suoi 9 ettari ad aglianico piantati nel 1999 e nel 2008, l’uliveto con oltre 1000 piante delle locali varietà Ravece, Marinese e Porcinola e la foresteria della quale Anna Maria, architetto, ha da poco ultimato il restauro.
La nuova Country House:
Il casale, oggi Country house con tre camere destinate all’ospitalità, ha l’aspetto di una masseria fortificata ed è circondata da ulivi e viti. Inoltrandosi a piedi nella proprietà si possono ammirare tre stupefacenti ceppi di aglianico prefillosserici censiti dalla Facoltà di Agraria che sembra abbiano oltre 250 anni.
Quest’anno (non accadeva da alcune vendemmie) nonostante una micidiale grandinata che ha colpito la vigna ad agosto, e che ha privato l’azienda del raccolto, mostrano con la dignità di gran dame alcuni grappoli di uva turgida e intensamente viola-nerastra.
Accanto al casale, acquistato nel 1716 dai “Padri Benedettini “ dell’Abadia della Cava”, sotto un enorme pino a ombrello con vista sulle vigne e su Paternopoli, c’è la piccola chiesa di famiglia dedicata a San Pietro, Santo del quale si custodiscono la reliquia e la statua lignea.
L’azienda vinicola, totalmente autonoma dal punto di vista energetico grazie all’utilizzo della sansa di oliva autoprodotta, è un piccolo gioiello di cultura contadina scavata a mano nella pietra, grazie alla passione di Anna Maria per la catalogazione di libri, documenti, ricette di famiglia, elementi architettonici e aggeggi antichi da cucina. Tra gli altri, due davvero deliziosi che mi mostrano: gli acchiappamosche in vetro soffiato di fine Ottocento e una curiosissima macchina da caffè dei primi Novecento che si mette in azione da sola allo squillo della sveglia.
Si lavora sodo, dai Famiglietti, ma senza fretta. L’unica etichetta aziendale, il Temprato, un aglianico in purezza lavorato solo in acciaio secondo lo stile che Anna Maria ama, esce sul mercato con calma (troverete in circolazione la 2007) ed è per lo più in vendita in azienda. Qui i fratelli accolgono gli enoturisti proponendo, oltre al proprio vino e olio, ovviamente, le loro selezioni di prodotti irpini e l’Amareno, un gradevolissimo dopo pasto a base di foglie di amarena messe a macerare in aglianico, prodotto da mamma e figlia nei ritagli di tempo.
L’assaggio (85/90):
Il Temprato 2007 Campi Taurasi Doc è un vino mutevole, quasi umorale. Richiede molto tempo per aprirsi: risulta per diverse ore molto compresso, schivo e silenzioso.
Avendo avuto già occasione di degustarlo l’ho aspettato e lo ritrovo come lo ricordavo: di grande franchezza sia al naso che in bocca. Di semplicità e schiettezza quasi adolescenziale, anche se severo. Ha un colore rubino vivace, compatto come seta grazie. Nonostante l’annata calda, mette in mostra quello che è il suo aspetto più interessante: una bella materia viva. Presenta, sulle prime, profumi di frutta a bacca rossa e nera appena maturi, poi si apre alle note di sottobosco, quasi fungine, di spezie scure, cenere e zucchero di canna. In bocca è saporoso e pieno, ricco nei rimandi di frutta e di carrube, delicato nei ricordi di liquirizia.
La lavorazione senza legno ha lasciato intatto un tannino di spiccato carattere che rende la beva stuzzicante. Un vino che promette lunga vita. Da riprovare per vedere se l’adolescente è diventato il principe che sembra essere.
Cantine Famiglietti, Piazza Sottochiesa, 3 Paternopoli (Avellino) – ettari vitati: 9 – vitigni: aglianico – enologo: Carmine Valentino – tel. 0827 71023
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