di Raffaele Mosca
Sempre più precisi, sempre più longevi, sfiziosi al momento del rilascio e sorprendenti a distanza di anni dalla vendemmia. Sono i bianchi della Campania aldilà della triade già consolidata composta Fiano, Greco e Falanghina delle zone interne. Vini spesso prodotti a due passi dal mare, in vigneti con panorami mozzafiato sulla costa e le isole; figli di una viticoltura complessa, faticosa, a tratti ancestrale, riportata in auge da viticoltori folli, ostinati e follemente ostinati come Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo, Raffaele Moccia di Agnanum, Giuseppe Fortunato di Contrada Salandra. Personaggi che perpetrano un’opera di valorizzazione che va ben oltre il risultato nel calice: garantisce la conservazione del paesaggio, pone un ostacolo alla speculazione edilizia e all’antropizzazione estrema di alcuni degli scorci più belli del Mediterraneo.
Ecco i bianchi dai Campi Flegrei alla Costiera Amalfitana raccontati in sei vini:
Contrada Salandra – Campi Flegrei Falanghina 2018
Cominciamo dai Campi Flegrei, location di quest’ultima edizione di Campania stories, la kermesse annuale dedicata alle nuove annate campane. Un sistema complesso di crateri e solfatare alle spalle di Napoli, intorno ai quali la vite su sviluppa su terrazzamenti di sabbia vulcanica dove la fillossera non ha mai attecchito, e piante ultracentenarie a piede franco continuano a produrre vino.
Circa una ventina di aziende operano in questo territorio vulcanico al 200%, dove l’odore dello zolfo incontra la brezza marina. Un contesto che dà un imprinting molto preciso alla Falanghina, diversa anche geneticamente da quella del Sannio e molto meno produttiva. Dimenticate il solito mix modaiolo di fiori e frutti, magari esaltato da ceppi di lieviti specifici: i migliori vini di questa zona offrono spessore, incisività, anima “lavica” che lascia il segno. Come la Falanghina dei Campi Flegrei di Giuseppe Fortunato e Sandra Castaldo di Contrada Salandra , azienda conosciuta per la produzione del miele ancor prima che per quella vinicola, che segue un approccio molto essenziale, con vigne condotte in regime biologico, fermentazioni con lieviti indigeni, immissione in commercio a non meno di tre anni dalla vendemmia.
La versione 2018, fresca di commercializzazione, ha un colore che vira sul dorato e lascia affiorare aromi intensi e per nulla scontati di pepe bianco e mais tostato, nespola e zenzero candito, fieno e qualche accenno di pietra focaia. La dinamica in bocca è dritta, sferzante, ma con la polpa e l’equilibrio tipico dei vini che hanno già fatto qualche anno di affinamento. La sapidità fa salivare, ma non punge; la matrice fumosa e sulfurea definisce un finale ancora in divenire. Buono adesso con piatti di pesce saporiti, ma sarà ancora meglio tra tre o quattro anni.
Scala Fenicia – Capri Bianco 2020
Dalla terra ferma all’Isola di Capri, dove Greco, Falanghina e Biancolella sopravvivono in un manipolo di appezzamenti arroccati sulla Scala Fenicia, grande costone di roccia che sovrasta Marina Grande. Tutto merito di Andrea Koch, che gestisce queste vigne insieme a una famiglia di anziani coloni e ne ricava un bianco estremamente contemporaneo, tra i pochissimi – se non l’unico – a rivendicare la DOC Capri.
I profumi dello Scala Fenicia 2020 sono impeccabili nella loro linearità: gelatina di limoni, melone estivo, erbe spontanee e qualche accenno fumè. Il sorso è tonico e rinfrescante, intensamente marino come da canone per un vino isolano e piccante di erbe disidratate sul fondo. Sfizioso e beverino anche in solitario, chiama l’abbinamento con scialatielli a vongole e pomodorini.
Ettore Sammarco – Costa d’ Amalfi Vigna Grotta Piana 2019
Sulla costiera più bella del mondo, tra Amalfi, Ravello e Tramonti, la famiglia Sammarco gestisce una fitta rete di vigne di proprietà o di conferitori su terrazzamenti a strapiombo con un piano di calpestio di pochissimi metri. L’azienda ha una storia trentennale alle spalle ed è tra le poche della zona dedicate interamente alla viticoltura (eroica) ; di recente si è allargata anche nel campo dell’ hospitality con l’acquisto dello storico hotel Palazzo Confalone nel centro di Ravello.
I vini, che purtroppo non sono facilissimi da trovare, perché l’offerta è quasi completamente assorbita dall’alta ristorazione della costiera, convincono per precisione e riconoscibilità. A spiccare è il Vigna Grotta Piana, da Ginestrella, Falanghina e Biancolella, con un passaggio in legni di medie dimensioni che lo rimpolpa senza cambiarne i connotati. Ha un naso prorompente: albicocca, zagara, origano, pasta d’acciughe. Il legno è una presenza discreta che arricchisce la bocca, dando cremosità a uno sviluppo sul filo del sale e dell’agrume, con finale insistente su rimandi alla macchia mediterranea.
Marisa Cuomo – Furore Bianco Fiorduva 2009
Cosa sarebbe la Campania del vino senza Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo? L’Irpinia è sicuramente il territorio che ha dato il là alla rivoluzione bianchista, ma nessuna azienda ha avuto un ruolo più importante nel processo di sdoganamento di questa con sede a Furore, il “paese che non c’è” nel cuore della Costa d’ Amalfi. Con il sostegno del professor Moio, Andrea e Marisa hanno messo su una cattedrale del vino nel mezzo di un luogo bello e martoriato dal turismo d’assalto, salvando appezzamenti destinati all’abbandono a agguantando premi e riconoscimenti a destra e manca. L’ultimo grande traguardo è l’inserimento del loro Fiorduva in una cassetta di vini italiani regalati a Joe Biden da Mario Draghi.
Da Bacco a Furore, a pochi metri dalla cantina, testiamo il potenziale nel tempo di questo super-blend di uve autoctone e semi-sconosciute – Ripoli, Fenile, Ginestra – che prende il nome dal Fiordo nascosto tra i pendii sottostanti, l’unico di tutto il Mediterraneo.
Il primo approccio è spiazzante: la Ginestra, che si chiama cosi proprio per la ricchezza di profumi, dà adito a toni esuberanti di fiori – il va sans dire – e di frutta a polpa gialla stra-matura, crema di limoni, qualche cenno affumicato e di tostatura da evoluzione a rafforzare il chiaroscuro. Il sorso è suadente, rotondo, cremoso, compassato e maturo come ci si aspetta da un vino che ha già tredici anni, ma senza nessuna deriva ossidativa, anzi con piglio acido ancora tosto che emerge più chiaro nell’abbinamento con una frittura di paranza.
Agnanum – Campi Flegrei Falanghina 2006
L’emancipazione dei bianchi flegrei passa anche per la (ri)scoperta della longevità. Esattamente come i migliori Greco e Fiano, le Falanghine dai terrazzamenti vulcanici evolvono egregiamente e, nel tempo, perdono parte del loro candore espressivo in favore di una matrice più scura e boschiva.
Lo dimostra una bottiglia stappata dal personaggio più incredibile che potete incontrare nei Campi Flegrei: Raffaele Moccia, il vignaiolo che, a ridosso del bosco degli Astroni, dove i Borboni andavano a caccia, coltiva vigneti ripidissimi con una visuale che spazia da Ischia a Capri, frenando in questo modo l’avanzata del cemento che ha deturpato il fondovalle di Agnano.
I suoi sono vini artigianali nel senso più stretto della parola: scapigliati ed imprevedibili, spesso profumatissimi all’esordio, profondi a distanza di anni dalla vendemmia. La Falanghina 2006 ricorda un grande Timorasso per profusione di aromi idrocarburici; ma c’è anche una parte mielata ed erbacea sul fondo che rafforza il chiaroscuro e ci riporta in questi territori a due passi dal mare. In bocca l’acidità è intatta, ma è sopratutto la parte sulfurea, magmatica a prendere la scena e dare tridimensionalità a un sorso di grandissimo carattere. Vino clamoroso, rivelatore del potenziale solo parzialmente espresso di una Campania del vino diversa, ma non minore.
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