Dopo la bomba carta a Sorbillo, la stesa a Granieri e Di Matteo, cosa sta succedendo davvero nel cuore di Napoli? Ecco la nostra interpretazione, pubblicata ieri in prima di cronaca sul Mattino.
di Luciano Pignataro
L’offensiva della camorra contro le pizzerie più conosciute di via Tribunali non può essere raccontata con le consuete categorie a cui siamo stati abituati perché qualcosa di profondo sta cambiando nella società napoletana e tra i giovani. Qualcosa che ha messo le organizzazioni criminali per la prima volta in difficoltà culturale nel proprio brodo di cottura, quello del reclutamento della manodopera.
Si, perché detta in termini molto semplici e banali, oggi la vita del pizzaiolo, un tempo considerato l’ultimo gradino della scala sociale, non solo è più bella e affascinante di quella miserabile e rischiosa del bullo che vive in paranza, ma anche molto più remunerativa. Per la prima volta in modo efficace un settore dell’economia è in grado di essere più attrattivo psicologicamente di una carriera criminale.
Stiamo esagerando? Guardiamo alle dimensioni della cosa prima di rispondere affrettatamente. In città ci sono 1500 pizzerie, quasi diecimila in tutta la regione: centinaia di giovani che prima stavano sulla strada intraprendono un mestiere che può regalare risultati ritenuti impensabili sino a qualche anno fa: una casa a Posillipo o al Vomero, vacanze nei Paesi esotici, notorietà, televisione, ammiratori e ammiratrici, auto e moto di lusso.
Già, perché i pizzaioli più affermati, quelli sulla bocca di tutti, oltre ad essere bravi sono diventati anche ricchi e famosi dimostrando così che il mondo della pizza è uno dei pochi, forse l’unico, ascensore sociale che si può prenotare al Sud. Nessun altro mestiere legale è in grado di cambiare così radicalmente le condizioni di vita di chi lo pratica, nessuna altra professione, neanche quella di chef, è capace di entrare ogni giorno nei sogni dei ragazzi delle classi più povere.
Con questi atti intimidatori la Camorra non vuole solo ribadire il controllo del territorio, anzi, al contrario, può esercitarlo proprio se la situazione resta calma lontano dai media e via dei Tribunali non si trasforma in un presidio militare.
La Camorra sta ribadendo soprattutto la sua superiorità come modello di vita a quanti sino a ieri sognavano di essere capoclan e adesso studiano e lavorano per diventare pizzaioli famosi.
Già, perché questa rivoluzione silenziosamente assordante sui social ha creato aspettative, nuovi linguaggi, nuovi orgogli, prima assolutamente sconosciuti agli scugnizzi. Certo ci sono le esagerazioni, ma evviva! Oggi fare il pizzaiolo significa anche girare da un capo all’altro del mondo per insegnare il mestiere, fare consulenze, aprire pizzerie in nome e per conto di imprenditori. Insomma, un’altra vita rispetto a quella che abbiamo conosciuto e descritto per circa duecento anni in città.
L’offensiva di questi vigliacchi che non se la sanno vedere da uomo a uomo, un po’ come i conigli da tastiera del web, vuole semplicemente ribadire la superiorità di un modello perdente che rischia di essere messo in discussione nella immaginazione dei ceti più emarginati.
Del resto, non si è sempre teorizzato nella fabbrica dei convegni che una economia sana è in grado di far regredire quella illegale?
Ed è proprio quello che sta succedendo con la pizza, andate da questi giovani, chiedete le loro storie: vi racconteranno di disagi, sacrifici e anche di una vita border line con annessa disavventura giudiziaria. Vuoi mettere fare un selfie oggi con la propria pizza al termine di una serata in cui hanno fatto la fila a decine davanti alla tua pizzeria?
Ma c’è anche una chiave di lettura meno consolatoria. Che si intreccia con la prima in modo sottile e inquietante. Di fronte alla produzione di ricchezza la camorra ha fiutato l’affare e ci vuole entrare. Non è questione solo di pizzo, ma voglia di partecipare al grande business che è cresciuto sotto il suo naso. Alcune inchieste giudiziarie hanno già confermato l’uso di pizzerie come lavatrici di proventi di attività illecite. La ristorazione è diventata un terreno fertile di investimento per le più forti organizzazioni criminali come abbiamo visto nelle inchieste di quest’ultimi anni a Roma, Napoli e Milano. Ma stavolta c’è qualcosa in più: non solo lavatrici, ma veri e propri business che a loro volta realizzano grandi margini come nessun’altra attività, e senza rischi, creando a parte enormi contabilità in nero che vanno investite in altre attività.
In poche parole la camorra sta bussando alla porta per entrare nel business.
L’eterna lotta di Ulisse contro Polifemo, l’eterna partita che si gioca a Napoli dove ogni cosa ha il fascino e la forza dell’effimero, una fatica di Sisifo, castelli costruiti sulla sabbia da ricostruire onda dopo onda con pignoleria e determinazione.
Di fronte ad una città che realizza il tutto esaurito turistico da tre anni e un settore come il mondo della pizza in crescita continua a due, tre cifre, non era pensabile che la camorra continuasse ad occuparsi solo di traffici di droga. Ed eccola, puntuale, bussare alla porta adesso che ha percepito la validità imprenditoriale della posta in gioco, la capacità di un settore di moltiplicare ricchezza.
E se un pizzaiolo può guardare con commiserazione un suo coetaneo che rischia la vita per fare il delinquente, e non gli fa manco tanta paura, potrebbe guardare con attenzione e ammirazione alle offerte di un signore elegante con la valigetta carica di contanti che bussa alla sua porta in modo gentile e persuasivo. Ed è questo oggi il rischio di una partita che non si può giocare più in bianco e nero, perché il campo di gioco è proprio la zona grigia, quella difficile da circoscrivere e definire, quella di cui noi tutti a volte facciamo finta che non esista.
Forse, a dirla tutta, più che pattuglie e videocamere, servono incroci di dati bancari e societari per bloccare questa nuova offensiva, la prima della camorra sulla pizza.
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