Il fascino irresistibile della Calabria è nel suo essere qualcosa di esattamente opposto a quel che appare. La leggiamo oggi, con superficialità, come terra ferma, quasi isolata. Eppure questa è solo una condizione temporanea della sua lunga storia millenaria nella quale invece è stata regione di arrivi e partenze, ricchezze e opulenza, incrocio di razze, popoli, religioni. La metafora di questo paradosso è il suo stesso simbolo gastronomico, il peperoncino, venuto dalle Americhe e che si identifica con questa regione, dove c’è anche l’Accademia del Peperoncino fondata a Diamante da Enzo Monaco.
Leggere il libro di Valentina Olivieri, presentato al Salone del Gusto a Torino, vuol dire fare questo viaggio perché l’autrice è essa stessa cuoca, comunicatrice e allieva di Massimo Montanari, i cui studi dell’alimentazione sono un riferimento assoluto per chiunque voglia andare oltre il piatto.
«Calabria in cucina» (Sime Books, pp.290, 26 euro) è appunto una narrazione in cui si intrecciano riti domestici, spiritualità, usanze. Il problema, oggi, non è chiedersi se esista o meno una cucina calabrese, ma capire invece che siamo in presenza della matrice di tutte le cucine, soprattutto della Dieta Mediterranea.
Le ricette di abbondanza sono sempre segnate dall’eccesso, dalla mancanza di mediazione. Qui, dal Pollino allo Stretto, pur tra le diverse sfaccettature, il dolce è dolce, il salato è salato e il piccante è piccante. Ecco perché ancestrale, perché non è la ricerca dell’equilibrio l’ossessione di questa gastronomia rurale, ma l’esaltazione del sapore.
I piatti di questa cucina allora oscillano dalla sabbia rossa di Crotone dove sembra già di toccare l’Africa alle montagne austere del Pollino dove ci si nutre di patate, funghi, tartufi e legumi. Dal grasso del maiale usato senza mezzi termini alla civiltà dell’olio d’oliva che fa di questa regione la seconda per dimensioni produttive dopo la Puglia e prima della Sicilia. Dalla varietà dei suoi cento vitigni autoctoni ai grani al riso di Sibari che torna ad essere coltivato come mille anni fa quando arrivò dalla Sicilia portato dagli arabi.
Segnali di influenza sono quelle della cucina dei monzù di inizio Ottocento con i timballi di pasta e i pasticci di carne e nei piatti di pasta di grano duro che fa da ponte dalla Sicilia a Napoli.
Cucina degli eccessi e della conservazione. Già, perché l’altro grande tema, dai fichi secchi ai sottoli, dagli insaccati alla salatura, è che siamo ancora in presenza di tecniche che precedono l’arrivo dei frigoriferi nelle case. Una tradizione orale forte, che ha avuto forse un elemento di rafforzamento nell’emigrazione perché le mamme riempivano le valige dei loro figli di cibi che si dovevano conservare a migliaia di chilometri di distanza per mangiare ancora la propria terra lontana.
La 80 ricette della tradizione che trovate in questo libro non costituiscono un perimetro museale, ma sono la sostanza su cui si basa il futuro, costituito dalla nuova cucina calabrese dei giovani cuochi, almeno una decina, che stanno tanto facendo parlare in questi ultimi anni. Un memo per ricordare da dove si arriva, senza nostalgie, ma con l’orgoglio di essere riusciti a sopravvivere in una terra aspra e bellissima. Ma soprattutto buonissima.
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