di Marina Alaimo
L’incontro sul caffè ed i Caffè di Napoli a Magna, la mostra agroalimentare napoletana in corso nel convento di San Domenico Maggiore, ha avuto molto successo grazie al fatto che la storia esercita sempre un fascino infinito. E Napoli è un luogo prezioso dove storia e diverse culture si sono intrecciane nei secoli, anzi nei millenni, generando una ricchezza in bellezza e saperi che tocca diversi settori.
Tra i tanti c’è anche l’enogastronomia che si manifesta e si racconta in maniera golosa ed affascinante, sia che si tratti di cucina popolare che di raffinata culinaria. Sappiamo bene quanto sia radicato il culto del caffè a Napoli, ma pochi sanno come sia arrivato in città ed il percorso intrapreso fino a diventare protagonista.
A raccontare tutto ciò è stato lo scrittore Angelo Forgione, autore del libro Made in Naples – come Napoli ha civilizzato l’Europa e continua a farlo, con prefazione di Jean Noel Schifano. Il fatto che esista il termine “espresso napoletano” la dice lunga su quanto questo abbia poi fatto tendenza in Italia, e non solo. Eduardo rappresentò magnificamente il valore del caffè nelle case partenopee con la celebre scena in balcone nel dialogo immaginato con il professor Sant’Anna nella deliziosa commedia “Questi fantasmi”. Ma come arriva qui il caffè? Certo non siamo mai stati produttori dei suoi chicchi, ma abbiamo saputo esaltare al meglio questa bevanda arrivata da lontano esattamente come è accaduto per i pomodori di origine americana o con la pasta arrivata da qualche paese del grano nel bacino del Mediterraneo.
Partendo dall’etimologia della parola se ne traccia anche il percorso geografico: caffè deriva dall’arabo qahwa (eccitante), poi divenuto kahve in Turchia, terra dalla quale è approdato in Europa. La pianta è originaria dell’Etiopia dalla quale si è diffusa in Arabia e Turchia. Fu Vienna la prima città europea ad apprezzare questa bevanda così piacevole tanto da dedicarle alla fine del XVII secolo i Kaffeehaus, raffinati caffè viennesi dei quali ci sono ancora deliziose testimonianze. Qui fu introdotto dal pascià Kara Mahmud nel 1665 nel ruolo di ambasciatore turco alla corte di Leopoldo I. Nella splendida Napoli del periodo dei Borbone, il culto del caffè giunse con la colta Maria Carolina D’Asburgo, figlia di Maria Teresa, divenuta moglie di re Ferdinando IV di Borbone nel 1768. La giovanissima Asburgo con non poca ostinazione si impegnò ad introdurre usi e costumi viennesi nell’etichetta di corte esaltando l’uso del caffè.
A Napoli era già arrivata da tempo la bevanda scura, come in altre parti d’Italia, nelle mani dei mercanti veneziani: Antonio Latini (1964) nel trattato di cucina “ Lo scalco alla moderna” cita il caffè come rimedio per i convalescenti. Per il suo colore nero sembrava quasi portasse male e quindi non aveva un grande appeal, fu anche ostacolato non poco dalla Chiesa che lo riteneva la bevanda del diavolo. Lady Anne Miller nel 1771 descrive un ballo di corte nella Reggia di Caserta dove molto probabilmente nacque il primo Caffè del regno di Napoli, servito da quelli che furono i primi baristi, vestiti con giubba e cappellino bianco.
“Appena la Regina si accorse che tutta la compagnia aveva cenato, si alzò e si avviò verso la sala del caffè, e così fecero quelli che ne desideravano. Le pareti sono coperte di scaffali sui quali vi sono tutte le qualità di liquori e vini greci. Vi sono tavole dietro alle quali stanno alcuni giovanotti con berretti e giacche bianche, che fanno e servono il caffè e altri rinfreschi. La Regina fu molto affabile con me, e quasi mi imbarazzò con la sua bontà; essendovi molta gente, e trovando una sedia vuota, mi sedetti, poi voltando la testa e accorgendomi che ero vicino a Sua Maestà mi alzai, ma essa, prendendomi per un braccio, mi obbligò a sedermi di nuovo, e siccome avevo una tazza di caffè, fu soltanto colla massima difficoltà che riuscii ad impedire che il suo contenuto si versasse sul vestito della Regina”.
Insieme al caffè con Maria Carolina arriva il kipferl, qui divenuto il cornetto, e sua sorella Maria Antonietta introdusse entrambi a Parigi essendo moglie di Luigi XIV. Anche i wafer alla nocciola nascono a Napoli nel 1898 con l’imprenditore viennese del cioccolato Josef Manner che scelse le pregiate nocciole vesuviane per creare il “ Manner Original Neapolitan Wafer n° 239”, il famoso Wafer Neapolitaner. In seguito fu comunque Napoli ad eccellere nella preparazione del caffè utilizzando una tostatura dei chicchi decisa in modo che conferisse un gusto ricco e cremoso in tazzina. L’arrivo poi della cocumella nelle case dei napoletani favorì l’inserimento della bevanda nella cultura popolare. Viene definita la caffettiera napoletana e, anche se nessuno la usa più perché poco pratica rispetto alla moka, un po’ tutti amano averla in casa o regalarla.
La cocumella è figlia del francese Morize che la creò nel 1819 rivoluzionando il metodo di preparazione che secondo l’usanza turca vede cuocere la polvere in acqua. La caffettiera napoletana attraverso l’uso di un doppio filtro prepara il caffè per infusione con acqua bollente fatta calare dall’alto. In seguito alla morte di Maria Carolina, il re Ferdinando IV si consolò in seconde nozze con Lucia Migliaccio alla quale donò Villa Floridiana, dotata di una kaffeaus in stile pompeiano, disegnata dall’architetto Antonio Niccolini, utilizzata come padiglione per le feste, poi distaccata dal complesso per esigenze di eredità e assegnata a suo figlio Luigi Grifeo, principe di Partanna, ministro del Re presso il Granducato di Toscana.
I kaffeaus di Napoli erano divenuti centri culturali di rilievo per gli illuministi del Settecento e raggiungono la massima espressione ed importanza nel secolo successivo che ne vede numerosi lungo la raffinata via Toledo: nel Caffè Trinacria si recava spesso Giacomo Leopardi in compagnia di Antonio Ranieri. Nel 1860 nasce il Gran Caffè, il più bello ed importante, detto anche “ Caffè delle Sette Porte”, nel piano terra del palazzo della Foresteria in piazza San Ferdinando. Era proprio l’anno del plebiscito, o pseudo tale, quello in cui Napoli cessa di essere capitale. Eppure proprio in quel periodo, e per almeno altri cinquant’anni, il fervore napoletano esplode facendo riferimento nei caffè della popolosa via Toledo, come se la città si ribellasse all’invasione. Il Gran Caffè era gestito da Vincenzo Apuzzo che ricevette il riconoscimento di Fornitore della Real Casa. Per debiti dovette cederlo a Mariano Vacca che nel 1890 ne affidò il restauro ad Antonio Curri, massimo esponente dell’arte napoletana. Infatti coinvolse i migliori pittori e artigiani della città rendendo unico nella bellezza quello che con lui prese il nome di Gambrinus, dalla divinità della birra nelle Fiandre. Volle rappresentare attraverso le due bevande più diffuse in Europa, il caffè e la birra, uno scuro e di influenza napoletana, l’altra bionda e nordica, l’importanza culturale di Napoli.
Quella Napoli ahimè ormai molto distante, forse perduta per sempre, che possiamo immaginare ed intuire proprio osservando con attenzione i tanti particolari delle sale del Gambrinus, magari sforzandoci di isolarci dal gran rumore prodotto dal personale forse non consapevole del privilegio di occupare certi spazi di tale rilevanza.
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