Passiamo ancora una mattinata sulle dolci colline di Lapio vitate a Fiano: la terra è inzuppata d’acqua, il Terminio innevato come al solito. C’è fermento in questo paese silenzioso, dove si incrociano le docg di Taurasi e di Fiano di Avellino, un svolta bianca intuita dai monaci e poi sostenuta con convinzione a partire dagli anni ’70 da Mastroberardino. Quasi 189 ettari bianchi, il genius loci di questo vitigno nobile in grado di guardare dritto nell’occhio qualsiasi altra uva bianca del Mondo.
Si dice che oggi i nipoti per vincere nella società globalizzata devono ripetere quel che facevano i nonni. La chimica ha garantito reddito più sicuro, addolcito la fatica da bestie, ma ha pesato sull’omologazione del frutto prima ancora che del vino.
Così in questo eterno ritorno in cui sembra di andare indietro procedendo invece in avanti, l’ennesima curva di queste strade senza rettilinei bloccate dalle greggi di Titiro, la strana coppia Maurizio De Simone-Raffaele Pagano pensa al vino del contadino.
E se è raro ma non difficile bere rosso da viti a piede franco prefillossera, una sorta di Aids della vite che colpì l’Europa alla fine dell’800 arrivata tardi sui suoli vulcanici campani, mai è capitato di farlo con il Fiano.
L’idea di partenza non è fare i vini contadini con le lunghe macerazioni su bucce, la cosiddetta vinificazione in rosso dei bianchi, ma partire da quel che resta del patrimonio genetico a Lapio che ha preceduto la fillossera, partire dalla pianta che invece di fruttificare dalla quarta gemma inizia dalla seconda. Monumenti vegetali su cui si sta centrando l’attenzione degli studiosi dopo la prima grande omologazione, quella delle selezioni clonali che privilegiano, ovviamente, la facilità e la semplicità rispetto alla complessità e alla biodiversità.
Non si tratta di stabilire cosa è meglio e cosa è peggio: ma se il Fiano viene piantato in Australia bisogna studiare ciò che non è replicabile per difendersi. E l’unica cosa che non si può ripetere, la più preziosa in questo mondo dove tutti si corre, è solo il tempo.
C’è la regina, fuori filare, nella vigna dei fratelli Alfonso e Antonio Romano. Ha più o meno la stessa età dell’Italia ma non ha avuto celebrazioni. Resiste come quelle antiche case in pietra circondate dalla follia del cemento dei paesi vesuviani. Sono sparse, tra Ferrone, san Nicola e Arianello, la contrada resa celebre da Clelia Romano.
Per la strada Zi Felice ci porge un bicchiere del suo vino, misto di sciascinoso misto ad altre uve.
Il secondo passaggio è la vinificazione. Il legno campano è sempre stato il castagno, Maurizio e Raffaele scelgono quello di Agerola, difficile da gestire perché più poroso. La scelta di diversificare passa anche dall’uso del legno, l’idea di capire come si possa usare gli strumenti del passato con le conoscenze tecniche acquisite negli ultimi decenni.
Infine l’uso dei lieviti, di territorio e il non uso di solfiti. A cosa servono, si chiedono i due estremisti del Fiano, le piante vecchie se usiamo mezzi e protocolli in uso per tutto l’areale?
Sarà allora il caso di provare una delle 2000 bottiglie Piante a Lapio vendute a casse di 9 a 45 euro più Iva l’una.
La prima vendemmia disponibile è la 2011, di cui avevamo assaggiato le piccole masse separate qualche mese fa. In questo caso si sono usati lieviti messi a disposizione dalla Regione grazie allo studio del professore Giancarlo Moschetti. Il vino sta muovendo i suoi primi passi in bottiglia: il naso è scontroso, non si offre facilmente e va cercato. Trovo citrico, pera, un po’ di macchia. In bocca è sapido, pieno, lungo, molto molto fresco. Da abbinamento e di sicura prospettiva. Sarà disponibile a partire da aprile e sarà presentato a Milano e a Roma.
Il 2012 usa invece lieviti autoctoni. Il naso in questa prima fase è monocorde: sembra di sentire una purea di pera, quasi un distillato di un descrittore che noi trovviamo sempre quando proviamo il Fiano. In bocca questa dolcezza sparisce totalmente, come nel 2001, per lasciare posto alla freschezza e alla sapidità. Due vini salati.
Resta una grande incognita: senza l’uso dei solfiti quanto potranno durare questi vini? Nessuno, al momento è in grado di offrire una risposta, dobbiamo solamente aspettare.
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