di Roberto Curti
Nella sua inesausta opera di fabbricazione di una letteratura potenziale, Georges Perec amava confrontarsi con regole, ostacoli, vincoli sempre più astrusi: una scrittura della restrizione, che mirava attraverso le limitazioni a sviluppare l’invenzione. Come scrivere un romanzo-lipogramma completamente privo della lettera “e” (e un altro, speculare, in cui la “e” è l’unica vocale); o creare un monumentale iper-romanzo universale e onnicomprensivo, un puzzle assemblato con rigore matematico a partire da categorie ferree quanto arbitrarie, e ambientato interamente in un palazzo parigino, in un singolo istante di una sera d’estate del 1975.
Alfio Ghezzi non è uno scrittore ma uno chef, non utilizza carta e penna ma pentole e fornelli, e probabilmente non ha altre ambizioni se non quella di soddisfare il cliente e fare bene il proprio lavoro. E del resto la sua professione comporta già di per sé innumerevoli limitazioni, imposte non per sfida ma per necessità o contingenza, dettate dalla struttura e dalle ambizioni del ristorante, dal tipo di clientela, dall’ubicazione, dal ritorno economico, e via dicendo. Eppure, nella carta approntata da Ghezzi, chef della Locanda Margon di Trento, l’avventore troverà anche un percorso creativo sviluppato a partire da una singolare restrizione autoimposta. Si chiama “Suggestione Bollicine” ed è un menu degustazione volto a esaltare i prodotti della casa madre, le cantine Ferrari della famiglia Lunelli. Il cibo in funzione del vino, dunque, e non viceversa.
Se nell’alta cucina gli esempi in tema non mancano, dalle cozze al Riesling di Joan Roca ai Wine Restaurant di Enrico Bernardo, l’idea di un percorso gustativo in cui quello che sta nel piatto faccia costantemente da spalla al protagonista nel bicchiere è un’autolimitazione non da poco. Specie se i vini in questione, prelevati esclusivamente dalla collezione Ferrari, sono altrettante bollicine, in un arco che va dal Perlé al Maximum demi-sec passando per il Perlé Rosé, il Riserva Lunelli e, noblesse oblige, il Riserva del Fondatore. Niente bianchi fermi, né rossi: avesse voluto darsi un tono, Ghezzi avrebbe ben potuto chiamare il suo menu “La scomparsa”.
Ma alla Locanda Margon si bada al sodo: suddividendo le proposte tra un “Salotto Gourmet” e una più semplice e tradizionale “Veranda”, innanzitutto. E interpretando la sfida autoimposta con umiltà. Sfida duplice, peraltro: fare da traino alle creazioni di casa Lunelli, e mantenere una propria identità, una personalità che non si svilisca al rango di semplice sparring partner palatale, restando fedele all’assunto di partenza. Un progetto ancora imperfetto, in divenire – lo si intuisce da certe varianti anche minime di alcuni piatti rispetto alle versioni proposte pochi mesi prima – ma intelligente e coinvolgente.
Si inizia a mano libera, con una parata di stuzzichini. Si parlava di Roca, e l’olivo bonsai con appesi due bon bon che arriva in tavola viene dritto da Girona: anche se all’oliva caramellata del Celler qui si sostituisce un’appetitosa ascolana sui generis. Meritano la menzione anche gli anelli croccanti di polenta al nero, curry, paprika e origano, la terrina di fegatini nocciole e cioccolato affumicato, e soprattutto il bon bon di mozzarella in carrozza; ed è curiosa l’idea della forma di trentingrana lavorata al microonde e trasformata in piatto di portata.
Alcuni limiti si pongono, altri si travalicano. I gamberi rossi di Mazara del Vallo con zucca, curry e crema di arance salate (in un’altra versione l’accompagnamento era più mediorientaleggiante, affidato a mouttabal e salsa tahine) sono un’infrazione – la prima, non l’ultima – alla territorialità che però fa da soave contrappunto alla pulizia del Perlé. Forse accademici? Di certo ben bilanciati, anche grazie all’aggiunta dei semi tostati di zucca a variare le consistenze.
Canederlo di fregula, zuppa di brodo bruciato e capesante al prezzemolo, sposato con il Riserva Lunelli 2003. Qui Ghezzi osa di più, rileggendo il piatto territoriale per eccellenza in maniera brillante e soprattutto ghiotta. E per una volta la capasanta (cruda, tagliata a fette spesse e ricoperta da una salsa verde: molto meglio rispetto alla precedente versione del piatto, in cui figurava intera e brasata, mentre inizialmente Ghezzi aveva ripiegato su vongole e brodo di broccolo rapa) ha un suo perché.
Segue l’altimetria di insalata. Servita in un piatto che rende anche tridimensionalmente l’idea della progressiva scalata dal mare (insalata d’alghe) alle vette di montagna, dove ci attendono deliziose cortecce di carota al forno (dalla consistenza simile a un cono croccante), con crema di carota al cumino e corniole. Simpatica e didattica senza però abdicare al gusto. Chi non ami arrampicarsi, può planare su un piatto di verdure bollite che di ospedaliero hanno solo il nome.
Con il Blanc de Blancs il gioco si fa più sofisticato. Inchino al padrone di casa, il Divo Giulio, Riserva del Fondatore 2001, proveniente dal vicino Maso Pianizza, innanzitutto; ma chissà, forse si fa sentire la vicinanza del Mart di Rovereto, con gli Achrome di Piero Manzoni già ispiratori del Divin Gualtiero, uno dei maestri di Ghezzi. Che però evita voli pindarici: per una conferma, basta lavorare di cucchiaio e forchetta. Crema di patate sifonate al limone (splendida), trippe di baccalà, treccia di mozzarella, uovo di quaglia, champignon marinato nel vino. E se la prima impressione è che al mosaico gustativo manchi l’ultimo tassello, è sufficiente tuffare il naso nel bicchiere perché l’immagine si completi.
Riso e bollicine. Mantecato al Verde del Montegalda e Perlé Rosé, ricoperto da una lieve velatura di vino (addensato con l’agar e sifonato) a dare un tocco di acidità e fare da trait d’union con il calice al quale il piatto è abbinato. Appagante rivisitazione di un classico un po’ fané, meno “pensata” del precedente ma altrettanto riuscita.
Il Perlé Rosé accompagna (o viceversa) anche il secondo di carne, il suinetto “Cinturello Orvietano” con purea di patate, porri, zenzero caramellato, un tocco di rafano grattugiato. Non lascia a bocca aperta, non ruba il proscenio: è ancora una volta, semplicemente, goloso e rassicurante, ben dosato nei dettagli, cullato dalla persistenza del pinot nero.
Si chiude con il cannolo di caramello ripieno di mascarpone in una base acidula all’orzo e marzemino. E qui, a sorpresa, ecco l’unica infrazione alla regola, l’ultimo tassello di un grande puzzle che non collima con il resto a bella posta: la presenza del mozartiano rosso trentino, che qui fa capolino come ingrediente e contrappunto acido alla grassezza del mascarpone.
Tocca al Maximum Demi-Sec blandirlo e chiudere il cerchio. Perché se dopo tutto il senso ultimo di un percorso – sia esso gustativo, letterario, filosofico, umano – sta nella consapevolezza della sua incompletezza o imperfezione, a volte per trovare almeno momentaneo conforto non occorre scomodare i massimi sistemi: basta solo un buon bicchiere di vino.
LOCANDA MARGON
Via Margone 15, 38123 Trento
www.locandamargon.it
menu “Suggestione Bollicine”: 95 euro (vini inclusi)
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