di Carmelo Corona
Mesi orsono ho pubblicato su queste pagine web un pezzo provocatorio nel quale lamentavo la “deriva” del vino da “popolare e quotidiano accompagnatore dei pasti” a “nettare esclusivo, rituale ed elitario”. Per alcuni suonava come una eccessiva semplificazione, per altri costituiva invece una buona “approssimazione alla realtà”. In quel post denunciavo l’allontanamento del consumatore medio dal vino (anche) per ragioni legate a quella spirale di liturgica ritualità che nel tempo è stata costruita attorno alla bottiglia.
E proprio l’apertura del vino attraverso il consueto cavatappi è una di quelle operazioni rituali che mi sento, in questa sede, di dover stigmatizzare. Stappare una bottiglia di vino è, nell’immaginario collettivo, indubbiamente un rituale che ha in sé sempre qualcosa di magico: gli occhi dei presenti sono concentrati su chi svolge l’operazione. Ed io, che mi trovo a stappare settimanalmente decine e decine di bottiglie, mi vado convincendo sempre di più che il tappo ad estrazione e la relativa capsula costituiscono una scocciante, logorante ed arcaica “schiavitù rituale” della quale, a mio modesto parere, sarebbe ora di liberarci una volta per tutte (il primo brevetto di tire-buchon sembra risalire al 1795, ad opera del reverendo inglese Samuel Henshall). A tal proposito (e prendendo spunto dalle recenti considerazioni di Kyle Phillips) è fondamentale capire bene una cosa: il tappo e’ principalmente una chiusura, nient’altro che questo e ciò vale per tutti i vini del mondo.
Dal sito web di Planeta, una delle aziende siciliane più dinamiche ed efficaci sul piano del marketing e della comunicazione, fino a qualche tempo fa potevamo leggere: “Tra i tanti fattori che determinano la conservazione e l’evoluzione di un vino in bottiglia, la chiusura è senz’altro il più decisivo, e pertanto il più dibattuto. Su un ampio campione di vini… sono state provate 14 diverse chiusure… Il tutto… passato al vaglio di un folto gruppo di esperti per 60 mesi. Ebbene, udite udite, il tappo a vite è risultato sempre superiore alle chiusure tecniche e quasi sempre superiore ai tappi in sughero. …la migliore conservazione è l’aspetto a cui più di ogni altro teniamo, e il responso scientifico è incontrovertibile: è importante che consumatori e produttori ne siano consapevoli… siamo convinti che il tappo a vite rappresenti l’evoluzione per funzionalità ma anche per estetica. Siamo sicuri che il tempo ci darà ragione…”.
Ed io, anche se ci sono arrivato dopo oltre 20 anni di fulgida wine-passion (solo un anno fa non la pensavo così), oggi mi sento di sottoscrivere in toto quanto sopra. Dunque, il tappo a vite, oltre ad essere la forma di chiusura più semplice e pratica è anche quella più sicura per il vino, di gran lunga superiore a sughero, plastica, vetro ed altro. Ed a questo punto mi chiedo: quanto tempo passerà prima che i produttori italiani raggiungano quel grado di evoluzione che li porti ad operare l’opportuna scelta in tal senso? E’ ovvio che questo processo evolutivo, nei paesi produttori storici, tradizionali (Italia in testa) è vigorosamente ostacolato da una sedimentazione culturale che è piuttosto dura da rimuovere. Se poi aggiungiamo la scarsa (per non dire nulla) capacita di fare “sistema”, ecco che il quadro che esce fuori è quello che, in fondo, già conosciamo. Restando a Planeta, tanto per fare un esempio, tutti i vini senza particolare struttura e longevità, (come il La Segreta) quando destinati ad alcuni mercati esteri, vengono tappati con la chiusura a vite. Oppure penso alla neozelandese Saint Clair, che mette sul mercato bottiglie strepitose, a base di sauvignon blanc, chardonnay o pinot nero (a prezzi, in enoteca, di 30, 40 e più euro) sempre chiuse rigorosamente con il tappo a vite.
Sono convinto che la chiusura a vite, decisamente pratica, estetica e funzionale, sia in grado, con la sua immediata semplicità, anche di “riAVVIciNARE” tanta gente comune al vino di qualità, minimizzando quell’aura di esclusività ed elitarismo legata ai consueti rituali tecnici della mescita. I nostalgici? Si accontenteranno di trovare il tappo di sughero in quell’1% dei vini mondiali di cui il vignaiolo Aimée Guibert della Languedoc parla nel film Mondovino, girato 5 anni fa, ma ancora attuale… Lasciamo, dunque, il tappo di sughero a quel ristretto “club” dei grandi vini mondiali che sono ormai oggetto di culto, speculazione e mitizzazione, vere e proprie “commodities”, prima che vini “da bere” e per i quali i fattori culturali e di tradizione sono sicuramente più forti del timore dei danni da tricloroanisolo…
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