di Stefano Tesi
Non è frequente essere invitati da un’azienda produttrice di vini di una famosa denominazione di bollicine ad assaggiare un vino che non ricade sotto quella denominazione. E’ ancora più infrequente se il vino in parola viene prodotto in sole 4mila bottiglie, è appunto uno spumante e va in enoteca all’abbordabilissimo prezzo di circa 25 euro (valendoli tutti). In più, con una bella storia da raccontare.
Invece è successo giorni fa, quando sotto ai rami-bersò dello spettacolare faggio pendulo del giardino Four Seasons di Firenze Silvano Brescianini, vicepresidente esecutivo della Barone Pizzini, nota cantina del Franciacorta, ci ha stappato una bottiglia di Tesi Uno 2012 (tranquilli, nessun conflitto di interessi per il sottoscritto, è proprio il nome del vino, che corrisponde ad una delle tre tipologie sperimentali da cui ha preso vita): metodo classico, sessanta mesi sui lieviti e frutto di un taglio tra 20% di Pinot Nero, 20% di Chardonnay e 60% di Erbamat.
Già Erbamat. Che ovviamente non è un distributore automatico di oppiacei, né un robot per la cura del giardino, ma un antico vitigno autoctono della Franciacorta, citato già nel 1565 da Agostino Gallo e riscoperto negli anni ’90 del secolo scorso da Attilio Scienza dell’Università di Milano nel corso di una ricerca sulle vecchie varietà lombarde finanziata dalla provincia di Brescia. Si tratta, ha spiegato Brescianini, di un’uva bianca, tardiva, con pochissimi polifenoli, quindi quasi incolore, ma con una sua impronta aromatica, che matura un mese e mezzo dopo lo Chardonnay e, ciononostante, ha la metà degli zuccheri e il doppio dell’acidità del celebre vitigno internazionale. “Perfetta insomma – ha specificato – per evitare un eccessivo sviluppo di alcool e per mantenere fresco il Franciacorta”.
Non a caso, dal 2017 l’Erbamat risulta tra le varietà ammesse (con un massimo del 10%) dal disciplinare di quella docg.
Ma qui viene il bello.
Barone Pizzini dal 2008 lavora quest’uva che, giura il suo vicepresidente, li ha fatti ammattire parecchio, anche perché
“è un’uva che non matura mai e forse è anche per questo che era stata abbandonata”.
Fattostà che a furia di sperimentare e di degustare alla cieca, è emerso che lo spumante fatto con la formula 60+20+20 detta sopra è sempre risultata la più gradita agli assaggiatori. Così nel 2012 ne hanno prodotte 6mila bottiglie: un terzo giace in cantina come riserva aziendale e due terzi, cioè 4mila, ha preso la via del commercio.
Si tratta di un prodotto estremamente interessante, di un bel giallo dorato pieno, con perlage lento e fine. Al naso è secco, asciutto, elegante, con un accenno agrumato e una nota varietale sfumata e caratteristica che lo rende immediatamente riconoscibile. Anche in bocca è asciutto, con spiccata acidità, molto preciso, composto e lungo, con una levità che giova alla bevibilità senza nuocere all’eleganza.
Mi ha ricordato, ed è un gran pregio, certi spumanti di gran nome venuti dall’Inghilterra, dove non a caso l’acidità e le maturazioni difficili sono (o erano?) di casa.
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