Barolo vs Taurasi, perché no? L’idea è venuta fuori così per caso, con bottiglie aperte da quasi 24 ore e un paio d’ore ancora di piacevole discussione/confronto. Con Nando Salemme, tra amici appassionati. E’ pur vero che vi sono tanti altri riferimenti di spessore il Langa come in Irpinia, ma dieci anni sono dieci anni, un lasso di tempo più che ragionevole per poter dire sì, il Rüncot sarà pure un Signor nebbiolo, ma questo duemilauno è praticamente arrivato alla conta con il tempo, risoluto, spogliato del tutto di quella verve solitamente riconosciutagli, in quanto Barolo, a mani basse. Nulla a che vedere con il Taurasi dei Lonardo’s. Poi vabbé, ci sarebbe da dire anche dell’altro per il confronto con quel Greppo ’99 di Biondi Santi, ma di questo magari ne riparliamo fra cent’anni!
Il Barolo Rüncot esce solo nelle annate eccezionali con il nebbiolo raccolto nell’omonimo cru in Monforte d’Alba: poco meno di due ettari – terreno di natura calcarea argillosa, ben esposto a sud – “strappati” al più grande vigneto Gavarini che, reimpiantati nel ’90, dal 1995 vengono destinati esclusivamente alla produzione di questo vino. Vinificazione classica con fermentazione di 12/15 giorni in acciaio a temperatura controllata, con rimontaggi e malolattica sempre in acciaio. Poi fino a 28 mesi in barriques nuove di rovere francese, e ancora almeno due anni di bottiglia prima di uscire.
Sulla carta è chiaramente di concezione moderna, e a leggere qua e là pare che l’azienda ci tiene proprio a sottolinearlo, così non è difficile presumere quanto “contrasto” generazionale abbia potuto creare questo vino tra padre e figlio; da un lato papà Elio, notoriamente artefice di Barolo dalla marcata impronta territoriale, vini con “carattere tipicamente monfortino”, mentre il Rüncot, da quel che ho potuto cogliere in giro, è stato voluto proprio dal figlio Gianluca, e nato essenzialmente per approcciare tutti quei palati magari incapaci di cogliere a pieno la vera natura di questi vini dai tannini duri e solitamente bisognosi di lunghi anni di affinamento per essere apprezzati pienamente.
Questo assaggio però non depone certo a suo favore. Il colore è bruno, anche cupo, con toni sfumati evidentemente aranciati. Il naso è chiaramente evoluto, imbrigliato da sentori essenzialmente terziari; e l’impronta tostata del legno è addirittura ancora evidente, dolce e slegata. Poi note di sottobosco, tanto rabarbaro, china e spezie macerate, troppo. In bocca è asciutto, anche denso, voluminoso ma il sorso appare statico, privo di guizzi, nerbo, vivacità. Di estrema serbevolezza. E’ evidente che ha bruciato le tappe, sarebbe stato interessante coglierne il profilo non appena presentato al mercato, ma non v’è dubbio che l’anima, la spina dorsale pare l’abbia lasciata altrove, magari in cantina. Peccato (anche perché costicchia!).
Del Taurasi Contrade di Taurasi 2001 val bene ricordare qualche passaggio: anzitutto che siamo proprio nel cuore del paese omonimo che dà il nome alla docg, a circa 400 metri d’altitudine dove le vigne, parte impiantate a guyot (le più giovani hanno in media 20 anni) e parte, quelle vecchie di 50 e più anni con ancora il tradizionale “starseto” taurasino, insistono su terreni di chiara origine vulcanica frammisti ad argilla e sedimenti calcarei. La poca uva raccolta, una sessantina di quintali in tutto quell’anno, è rimasta in macerazione per più di un mese, poi il vino ha fatto circa 2 anni in tonneau, quindi in bottiglia per almeno 12 mesi; senza trattamenti, stabilizzazioni e filtrazione.
Il colore è ancora vivissimo, rosso rubino concentrato, solo appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è incredibile, intenso, verticale, ampio, con ancora evidenti ed invitanti sentori fruttati di ciliegia e prugna rossa, e arricchito da sfumature di frutta secca, note tabaccose e speziate. In bocca è un portento, dopo più di dieci anni t’aspetti un liquido armonico e sopito, ti arriva invece una sferzata di frutta e mineralità irresistibili; il tannino è sfuggente, ovvero perfettamente integrato col corpo del vino, non del tutto invece l’acidità, ancora tesa, vibrante e asciugante. Mi piace pensare a questo vino come modello di riferimento, magari non in assoluto, ma senz’altro decisivo come rappresentazione del terroir taurasino.
Per farla breve, senza scadere in banali campanilismi, è che, laddove ce ne fosse ancora bisogno, non appena ci metteremo ben in testa qual potenziale inespresso ha il nostro straordinario aglianico, e il Taurasi, non vi sarà più timore reverenziale che tenga, e con qualunque altro grande vino vi venga in mente. E questioni tipo misconoscenza, sottovalutazione, emulazione, saranno solo un banalissimo ricordo, “fesserie” come si dice dalle nostre parti.
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