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A ben pensarci la carta dei vini sta ai ristoranti come i capelli alle persone: c’è in questo dettaglio almeno il 70, 80% degli elementi che ti portano al giudizio finale. La carta di Francesca Mosele, da brava porthosiana, è scritta a mano, segno di idee chiare e difficilmente modificabili, un lavoro amanuense d’altri tempi: quasi la personalizzazione di ogni scelta direbbe Fabrizio Scarpato.
Altro che il “select all and paste” dei rappresentanti, oppure: “Mi dispiace la stiamo cambiando, per questo motivo il vino che avete chiesto non c’è”. Che sa tanto di teatro dell’arte italiano in stile “è la nipote di Mubarak”
“Sono nel posto giusto”, penso dopo averla appena vista tra le mani.
Che gioia uscire dai tornanti di fave e cicoria e del crudo senza se e senza ma. Che piacere individuare nel cuore di Bari, città molto conservatrice a tavola, un covo moderno e aggiornato, essenziale e non pretenzioso, attento alla materia prima e alla stagionalità, non arronzone.
La semplicità dei piatti di Antonio Scalera è come quella del vino di Francesca: prima la Città del Gusto a Roma, poi Quinzi e Gabrieli, Teverini, l’apertura di Ducasse in Toscana, e ancora Madrid. I due ragazzi hanno girato e si vede. Così mangiamo una Puglia moderna.
E gà la Spagna. Il gazpacho di verdure è freddo e didattico nei sapori, altro che Inaki: qui c’è orto pugliese, pomodoro vero senza sconti, la bocca saliva si desidera subito altro. Ingresso di mestiere, certo, ma anche saporito. Io poi ho la fissa per il freddo in questo momento. Ogni bambino dovrebbe provarlo per indovinare l’orto.
Il crudo introduce il tema della circolarità, lo sforzo di rappresentare nel piatto tutto l’edibile. Una prassi ducassiana che ci riporta nel classico: il crudo è lo specchio di quel che si pesca in questo momento, una proposta piena e completa, giochi di consistenze, marinature, rimandi all’orto e alla machia. Tutto in nome dell’olio d’oliva. Altro che Inaki.
Venite a Bari invece di andare a Parigi come i pappavall’ se volete semplicità non mediatica.
Io vado sull’orto, asparagi bianchi veneti (Francesca è di Bassano come lo era una mia zia), patate, uovo (chiunque abbia studiato in Francia lo ha sempre nel menu). Non esaltante ma solido, da breakfast.
Al mio commensale Nicola Campanile tocca il primo: buono e goloso. Ma non poteva andare diversamente.
La nostra curiosità ci spinge verso le carni. E qui abbiamo il vantaggio di materia prima di qualità mentre torna il tema della circolarità nel piatto. Non il coniglio, vitello o il capretto, ma i conigli, i vitielli e i capretti in sei preparazione diverse.
Piatti che hanno una loro perfetta classicità, la scuola si vede tutta. Buoni, saporiti, divertenti.
Capitemi, avevamo il Primitivo 2007 di Cristiano Guttarolo e non c’era altro modo che questo per berlo tutto.
Arriva il dolce, l’alternativa è una selezione di formaggi. Ci orientiamo verso due sorbetti.
“La zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa”, la lettera di maestri di casa di Nicolas de Bonnefons spiega la filosofia di una carta ben organizzata: degustazione di mare (60 euro, vini inclusi), di terra (55), vegetariano (50 euro). Alla carta tra i 50 e i 60.
Insomma, dal gennaio 2010 c’è questo modo diverso di vivere Bari a tavola. Siete proprio al centro, alle spalle del Palace.
Una bella coppia, con l’esperienza necessaria, le idee chiare, e tanta professionalità per crescere ancora insieme. Per la gioia di chi ama questa terra benedetta dal sapore.
Dimenticavo: la Bul è la borsa di acqua calda. Quella che ci fa dormire bene d’inverno. Molto più salutare dei riscaldamenti.
Oltre il Primitivo di Guttarolo, si è bevuto il Vigna della Congregazione 2005 e Pouilly Fumé 2009 di Alexandre Bain, sempre di Antoine la Cuvée Enrico 2000
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