
di Giulia Gavagnin
A Torino le stelle sono a soqquadro, eppure un’insegna brilla di vitalità e bellezza.
Si chiama Azotea, è un tempio di cucina nikkei, quella fusion tra Giappone e Perù che, tanto per dirne una, è l’anima fondante della cucina di Nobu Matsuhisa.
Qui, tuttavia, non si pratica l’arte del sushi, ma di ancestrali, pirotecnici accostamenti tra pesci crudi e vegetali andini, leche de tigre e proteine, cocktail di ogni genere e richiami territoriali.
E’ un martedì sera di febbraio e il locale è pieno, strapieno, proprio nella Torino che piange ad una ad una la strana stagione del fine-dining. In effetti, a pensarci bene, la cosa non sorprende: troppo radicata la tradizione di cucina sabauda, così conchiusa con le ricette di Casa Savoia che le sue variazioni sul tema da un lato non sono state capite dai torinesi; dall’altro, forse, non ce n’era bisogno perché già andava bene così. E, infatti, sulla trattoria urbana, sul bistro di sostanza, il capoluogo piemontese è imbattibile. Perché, a loro modo, nella nota polverosa imperturbabilità sabauda, rappresentano la vitalità. Sul fronte high profile, se si eccettua la lodevole eccezione di Condividere (cui l’iniezione di joie definitiva è stata data da un certo Ferran Adrià..) l’afflato che leva il fiato –in effetti-stenta: non a caso il famoso due stelle manca da un bel po’, se consideriamo come ultimo bistellato quel che regnava al Castello di Rivoli ormai una decina d’anni fa, e oggi il mondo è cambiato.

Ne approfittano gli audaci, i creativi, coloro i quali escono dalla comfort-zone.
Così, a due passi da Piazza Vittorio Veneto e dai Murazzi, due giovani-ma-non-troppo, Matteo Fornaro e Noemi Dal’Agnello, anime della sala, hanno dato una scossa alla sonnolenza dei palazzi pre-unitari e hanno consegnato alla città un luogo moderno, colorato, ma soprattutto stimolante. Tre sale arredate ognuna con elementi d’arredo diversi e sartoriali e colori vivaci, con gli inconfondibili richiami al mondo ancestrale ed animista del Sudamerica.
Ai fornelli un super-autoctono, Alexander Robles, vissuto a Torino fin da piccolo e ri- emigrato in Perù per conoscere profondamente le proprie radici, nientemeno che da Gaston Acurio, il padre della cucina peruviana contemporanea.
Il risultato è una cucina ancestrale autentica, nel menu corrente ispirata al Chakana, il ponte che conduce al sole e alle sue divinità nel mondo Inca: quindi, dubbio non v’è che questi ragazzi siano assai ambiziosi.
Il percorso è a dir poco intrigante. Benchè i nomi siano difficilmente pronunciabili, ma il menu soccorre prontamente, vi è una successione di ingredienti robusti come frattaglie, elementi marini dal gusto deciso e qualche fermentazione. L’incipit è (Pacha Hamaq, figlio del sole): zucca, patate, tempeh, huacatay, spinaci, charcuterie di agnello. Mama Cocha (dea del mare): picarone, ombrina affumicata, maionese di midollo, cetrioli in umeboshi, e asparagi di mare.
Il mondo di mezzo è rappresentato da Apus (spiriti delle montagne): Moraya, baby corn, barbabietola in salsa teruiyaki e fonduta di primo sale. Ancora, da Chu’ru Ceviche di lumache e cozze con leche all’olluco, lattuga di mare, coriandolo, cipolla rossa e cialde di mais.
I main course sono: Amaru Ramen: tagliolini di riso, bok choy, daikon, okra, alga wakame, pancia di maiale, anguilla alla piastra. E infine, Supay. Agnello marinato alle erbe andine con il suo fondo, cacao, ananas e lattuga arrosto, salsa ai tucupi, gel di aji panka, funghi.
In particolare, la ceviche e gli ultimi due piatti sono davvero notevoli, benché rappresentino (in parte) una scoperta: non diciamo, per favore, che siamo tutti abituati a consumare “salsa ai tucupi” a colazione!
Ognuno di questi piatti è accompagnato da un “sip”, un piccolo cocktail, ognuno davvero diverso dall’altro.
La loro narrazione richiederebbe un capitolo a parte per la complessità delle preparazioni, che prevedono ovviamente anche ingredienti sudamericani. Che a nessuno venga in mente che possano mancare il vermouth e il pisco.. si ci sono entrambi ma in versioni davvero inconsuete. Se il sip n. 4 è un vermouth con ancho reyes verde, huacatay, soda allo zenzero fermentato, velluto di mango e cachaca; il pisco prevede Tio Pepe fino, sidro di mele, fava di cacao, oleo saccharum di banana.
Il tutto per 65 Euro (il menu degustazione) e 40 Euro il pairing.
Che l’esperienza valga la deviazione è poco ma sicuro: il percorso non conosce cedimenti, il Peru non è dietro l’angolo, e il locale è davvero molto bello.
Attenzione solo a non bere un Martini di troppo come la sottoscritta!!
Azotea
Via Maria Vittoria 49/B 10123 Torino
328-6342213
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