Appunti testamentari. Overtourism e over pornfood, la cucina italiana fuori dalle grandi città

Pubblicato in: Paninoteche e Hamburgerie

Il nuovo ruolo delle guide gastronomiche

Per anni abbiamo partecipato a convegni che spiegavano come incentivare i flussi turistici come risorsa salvifica alla crisi di alcuni settori maniftturieri e in effetti città come Torino e Milano si sono meravigliosamente convertite da centri industriali a meta di viaggio.
Ma il fenomeno oggi investe anche realtà oltre ogni previsione, tanto che a Roma non si trovano più taxi (ma anche Milano e Torino arrancano nonostante i mezzi pubblici) e Napoli dove alcuni quartieri che non godevano di grande fama sono diventato una sorta di Disneyland gastronomica con i bassi trasformati in B&B e gli animatori napoletani che giovano a fare i napoletani.
Lasciamo stare i problemi che l’overtourism pone alla funzionalità delle città, non solo italiane per la verità visto quello che è successoa Praga questo Natale o a Barcellona con i residenti esasperati.
Quello su cui vale la pena riflettere è il termine turistico che da positivo ha finito per acquisire un significato assolutamente negativo.
A rigor di logica il menu turistico dovrebbe essere quanto di meglio si può offrire alla clientela, ma alla fine è diventato un modo per dire che viene proposto cibo di scarsa qualità e omologato.
Il caso di Napoli è emblematico. Le trattorie di un tempo dovevano far da mangiare ai napoletani che stavano fuori, erano cica un centinaio e ovviamente alla clientela veniv offerto un menu variegato che seguiva in qualche modo il famoso calendario settimanale che un tempo c’era nelle famiglie. Bene, oggi le trattorie sono quasi raddoppiattie ma difficilmente vanno oltre la pasta e patate con provola. Scomparsi i legumi, trionfa la triade pasta e patate con provola, ragù e genovese.
Diceva Veromelli che il successo banalizza i prodotti. Se leggiamo  una città come un prodotto, possiamo dire che è esattamente quello che sta succedendo nelle città turistiche. A Torino c’è il trittico di entrata (carbe cruda, insalata russa e vitello tonnato) seguito da plin o tajerin, a Roma il trittico cwrbonara-amatriciana e cacio e pepe, a Napoli abbiamo detto, a Milano prevsle l’offerta delle cantine gastronomiche che si sono fiondate sulla città. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma sta di fatto che da un lato assistiamo ad impoverimento della varietà dell’offerta gastronomica, dall’altro ad alcuni veri e propri omicidi gastronomici come lo spaghetto alla bolognese in bella vista nelle vie del centro di Roma e altri piatti simil italiani.
Ci rendiamo conto che fermare questa tendenza non è possibile perchè non è nella mentalità italiana la visione lunga delle cose, e dunque i ristoratori buoni si adeguano, quelli che vengono da altri settori vendono bucatini come prima proponevano scarpe o lampadari, tanto l’afflusso è talmente alto che è difficile che il turista possa tornare.
Direi che siamo di fronte ad una visione pastorale e non agricola del turismo. Invece di coltivare il cliente per farlo tornare e quindi “sfruttarlo” sui tempi lunghi si preferisce il tutto e il subito.
Questo è il motivo per cui la vera cucina italiana sta per essere espulsa dalla città e chi la cerca la può trovare solo nei territori sinora estranei a questa follia di massa.
Ma qui poi c’è un altro problema, ossia lo spopolamento dei piccoli centri disseminati lungo la dorsale appenninica e sull’arco alpino, a parte alcune zone salvate (per ora) dalla produzione di vino come le Langhe, la Valpolicella e il Chianti.
Quindi adesso andiamo vero un nuovo paradosso: proprio per questi motivi le guide possono tornare a giocare un ruolo importante per orientare i clienti alto spendenti.
A patto di evitare gli errori del passato e cioè:
1-Farsi dettare i temi dgali uffici stampa
2-Organizzare eventi con chi poi entra nelle guide
3-Infine, ça va sans dire, distinguere e rendere chiaro il rapporto fra scelte redazionali e pubblicità.
In una parola, cercare di tornare ad assumere il punto di vista del cliente.
Tutto molto difficile ma non impossibile. Basta avere una visione agricola e non pastorale del ruolo della critica e del giornalismo gastronomicoi


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