Pizzerie e pizzaioli tra Sette e Ottocento
Slow Food Editore
Euro 14,50
di Monica Piscitelli
Collocati nel gradino più basso della più plebea e splendida delle città ottocentesche dell’Europa del tempo, i Pizzaiuoli napoletani, sono stati, fin dalle prime battute della loro storia, una classe ristretta e specializzata di lavoratori. Né bettolieri, né cantinieri, né fornai, né maccaronari, né carnacottari, ma espressione di un’arte che si è sviluppata a partire della fine del XVIII secolo per arrivare ai giorni nostri. Nel mezzo, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, la diffusione del prodotto tra gli strati borghesi e abbienti della popolazione napoletana e, poi, in tutto il Mondo.
Con quelle professioni, dalle quali si distingueva per peculiarità tutte legate alla necessità di locali adeguati e ben ubicati, condivideva le condizioni di vita e sociali: semplicissime. Uno status che ne faceva un gruppo che, pur non essendosi mai organizzato in corporazione di mestieri, viveva, in un clima di forte solidarietà.
Cibo del popolino e delle classi più umili, la pizza nasce a Napoli dando da vivere a un buon numero di ambulanti e a circa un centinaio di pizzerie, botteghe cioè, in tutta la città e per lo più concentrate intorno alla grande arteria metropolitana del tempo: via Toledo. Questi e altri fatti, qui e là intervallati da dettagli curiosi, nel libro di Antonio Mattozzi edito da Slow Food e presentato nei giorni scorsi alla Biblioteca Nazionale.
Mattozzi, professore di materie letterarie e non nuovo alla ricerca storica a livello accademico, racconta di aver avuto l’idea del libro per celebrare la sua famiglia: una dinastia di napoletani che da 160 anni fa pizza a Napoli con cinque locali strategicamente e storicamente incastonati nel tessuto urbano della città. Il progetto originario, poi, nel corso del lavoro di ricostruzione storica, è cresciuto di fronte all’incredibile numero di inesattezze e invenzioni di certa letteratura folcloristica, facile alle pennellate di colore.
Nel libro, l’autore prende in esame i documenti più disparati: licenze, istanze, atti dello stato civile, ecc. Si stenta, a volte, nel leggere il libro a seguire il filo delle parentele e dei cambi di indirizzo dei locali destinati a pizzeria tra Sette e Ottocento, che è l’arco che lo scrittore prende in esame. L’effetto è quello di perdersi nei vicoli delle righe e di essere fagocitati da una folla di nomi e riferimenti geografici tra i quali è difficile orientarsi. Anche questo tratto caratteristico del testo, più che esserne un limite, contribuisce empiricamente a rendere l’atmosfera reale della Napoli che vide la nascita della pizza. In questa città, afferma l’autore, e non altrove, per la sua incredibile densità di popolazione, costituita, in gran maggioranza, da una plebaglia che non arrivava, ricorda Mattozzi con Matilde Serao, a mettere insieme 3 soldi. Pochi erano quelli che potevano acquistarne una intera, per lo più i morsi della fame venivano soffocati da semplici fette vendute dai garzoni riforniti sino a notte dal Pizzaiuolo.
La storia della pizza, nata nei decenni intorno al 1750, in pratica, con l’uso del pomodoro in cucina, iniziato solo alla fine dei Seicento, si intreccia con quello della città. Di quest’ultima condivide gioie e dolori: i sommovimenti della rivoluzione partenopea del 1799, le ondate periodiche di colera, il Regno Borbonico, l’Unità d’Italia e il Risanamento che cambiò volto alla città e che determinò la fine di molti esercizi. Tutto questo descrive l’autore. Molti gli aneddoti storici e altrettanti le leggende sfatate. Tra le altre, quella che la famosa pizza pomodoro, mozzarella e basilico, oggi nota come Margherita, sia nata solo nel 1889 ad opera di Raffaele Esposito, sposo di Maria Giovanna Brandi. A lui, invece, da imprenditore illuminato e con il senso del marketing, il merito di aver averle dato il nome e di averla offerta alla Regina D’Italia. Insomma, per essere un libro nato dalla penna di un Mattozzi per raccontare la storia di quella che è stata definita una vera e propria dinastia di pizzaioli iniziata nel 1852 con l’avo Emiddio, l’autore, bisogna rendergliene merito, finisce che dedicarle poco più di 14 pagine sulle oltre 200, trattando con uguale precisione e perizia tutte le vicende delle famiglie storiche di Pizzaiuoli della città. Il risultato è un volume che, per la prima in assoluto, ricostruisce, senza fronzoli, uso di luoghi comuni e note di colore, la storia della pizza di Napoli, così andando a inserirsi di diritto tra le fonti più attendibili e precise di informazione sull’argomento per gli anni a venire.
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