Martedì ha fatto l’ultimo briefing con il figlio Piero di buon mattino, come avveniva da sempre. Poi si è concesso una bella e lunga passeggiata, è rientrato in casa ed è uscito di scena.
Scompare così l’uomo senza il quale il vino campano così come viene prodotto oggi non esisterebbe: tutto centrato sui vitigni autoctoni.
Classe 1928, entra subito in azienda e si trova ad affrontare uno dei momenti più terribili: la crisi della fillossera, giunta in Irpinia negli anni ’30 e la guerra.
Si combatté aspramente e nella cantina di Atripalda ci sono ancora i segni delle pallottole sparate dai tedeschi in fuga.
Nel 1945 praticamente non esisteva più nulla del grande distretto vitivinicolo irpino che aveva dissetato l’Italia negli anni ’20. Insieme ai fratelli Angelo e Walter ripartì, ma fu lui a decidere i contenuti: fiano, greco e aglianico.
Sono stati questi tre grandi vitigni irpini l’ossessione di Antonio, Cavaliere del Lavoro nominato da Ciampi nel 1994.
La scelta testarda, montanara, tutta irpina, di restare fedeli alle uve dei propri avi sembrava quasi demodé negli anni ’60, quando gli ispettorati agrari iniziarono a spingere vitigni nazionali più prolifici: trebbiano, montepulciano, sangiovese, persino barbera.
E lo sembrò ancora di più dopo la crisi del metanolo, quando spuntarono gli internazionali. Ma Antonio è sempre andato avanti per la sua strada senza dubbi e i fatti gli hanno dato ragione: la Campania è oggi trendy proprio grazie a questi vitigni.
Un miracolo, già perché dobbiamo ricordare anche il terremoto del 1980, quando i vigneti venivano abbandonati e la gente fuggiva dall’irpinia.
Mastroberardino ha scritto personalmente i disciplinari del Taurasi, del Greco, del Fiano e del Lacryma Christi: grazie a lui la viticoltura del Vesuvio ha resistito nel momento più buio, quello dell’assalto ai suoli agricoli del cemento e della perdita di coscienza della ricchezza ampelografica del vulcano, per fortuna oggi recuperata.
Antonio è stato un grande precursore dei tempi. Anche nel modo di porsi, sempre low profile, che ha trasmesso al figlio Piero.
Lo si è visto proprio negli anni ’90, quando tutti alzavano i prezzi mentre Antonio, undicesima generazione al lavoro, ha sempre mantenuto la testa sulle spalle.
Se ne è andato lasciando una grande azienda ampliata e con la soddisfazione nel cuore di aver visto il figlio Piero migliorare ulteriormente la sua opera. Tranquillo che l’eredità della sua vita, che è l’eredità di tutta la Campania, è in buone mani.
A Piero, a Carlo, le sentite condoglianze personali e di tutti i collaboratori del blog che non esisterebbe se non ci fosse stata l’opera di Antonio.
Oggi siamo colpiti da un dolore profondo.
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