di Raffaele Mosca
Una grande “A” campeggiava sulla piazza del comune di Montefalco. Ci ho messo tre giorni a capire che non era l’ A di Anteprima Sagrantino, ma quella di “ A Montefalco”, ovvero la nuova rassegna che sostituisce la tradizionale kermesse dedicata alle nuove annate “della bestia che alberga al centro dell’Italia”. Una manifestazione corale che cerca di mettere sullo stesso piano i tre volti differenti del baricentro qualitativo del vino umbro.
Un’ idea che nasce dai cambiamenti che questa zona ha attraversato negli ultimi anni: nessuno dubita dell’importanza del Sagrantino, che continua ad essere un punto di riferimento per il territorio, ma è innegabile che il cambiamento del gusto e la riscoperta della leggerezza ne abbiano in parte ridimensionato l’appeal, spingendo i produttori a farne un po’ meno, farlo meglio e dare importanza anche agli altri due alfieri del territorio: il Trebbiano Spoletino e il Montefalco Rosso.
Trebbiano Spoletino
La produzione di vini bianchi a Montefalco non è una novità: la maggioranza delle azienda ha provato negli anni ad introdurre un bianco fresco d’annata per capitalizzare in fretta e attendere l’evoluzione del Sagrantino senza finire con l’acqua alla gola. Ma se all’inizio quasi tutti hanno cercato di far forza su di un pilastro regionale come il Grechetto, che però viene meglio in altre zone ( a partire dalla vicina Todi), negli ultimi l’attenzione è stata tutta incentrata sul Trebbiano Spoletino, potenzialmente uno dei migliori bianchi d’ Italia e non solo.
Vitigno semi-scomparso, recuperato e propagato dai vigneti dei conferitori della cantina Spoleto Ducale, fallita nel 2017, o da poche viti maritate sopravvissute a fondovalle, lo Spoletino paga lo scotto del nome “Trebbiano”, che gli s’addice ben poco, perché, pur avendo parentele generiche con quello abruzzese, si esprime in maniera radicalmente diversa: straripante di profumi che spaziano dai frutti tropicali alle erbe aromatiche, con struttura robusta ma rinfrescata da acidità adeguata e un ricco corredo fenolico. Un po’ come il Verdicchio, si presta a qualunque tipo di vinificazione: spumantizzazione o vendemmia tardiva, produzione di vini più o meno ambiziosi e con o senza macerazione sulle bucce; affinamento in acciaio, cemento, anfora o legno. E il bello è che, nonostante questo, mantiene sempre una certa riconoscibilità: esuberante quasi alla pari di un vitigno semi-aromatico (ma senza terpeni, il va sans dire).
Mentre degustavo quest’anno, ho provato ad accostarlo a qualche altro vitigno e francamente non ho trovato un paragone che calzi a pennello. Forse qualche versione assomiglia a un grande bianco del Rodano – un Condrieu magari – ma, nella maggioranza dei casi, lo Spoletino è “Spoletino”, e in questa originalità – più propria di Fiano, Pecorino o Verdicchio che della famiglia dei Trebbiani – sta la sua forza.
Francamente, il più grande limite al suo sviluppo allo stato attuale è meramente normativo: la decisione di estendere la Spoleto DOC al solo comune di Montefalco ha portato all’esclusione dalla denominazione di territori come Bevagna, dove, però, se ne producono versioni di tutto rispetto. Alcune aziende di rilievo – Tenuta Bellafonte per esempio – preferiscono rinunciare alla DOC Montefalco Bianco, denominazione di ricasco che contempla anche vini tagliati con Grechetto e vitigni internazionali. Lo etichettano, piuttosto, come semplice Umbria Bianco, e così facendo, si tirano fuori dal parterre dell’anteprima, abbassando la qualità media, che è paradossalmente più elevata se si assaggiano vini DOC e IGT anziché solo DOC.
Montefalco Rosso
A giudicare dal nome, si potrebbe immaginare un paragone con il Rosso di Montalcino, ma in verità il Rosso di Montefalco ha tutt’altra valenza. Innanzitutto per la composizione: 60-80% Sangiovese e 10-25% Sagrantino, con un’eventuale aggiunta di vitigni nazionali o internazionali. E poi perché contempla la categoria Riserva, con tanto di affinamento minimo di 30 mesi, di cui 12 in legno.
Nonostante questo, il Montefalco Rosso ha avuto – almeno negli ultimi trent’anni – un’accezione di vino “quotidiano”, più adatto alla tavola di casa e a quella delle osterie del Sagrantino. Un’idea che ne ha foraggiato il successo a livello locale, limitando, però, la diffusione fuori regione e, di conseguenza, anche la crescita sul fronte della qualità e del prezzo.
Solo di recente le aziende hanno cominciato a ripensarlo, cercando di dargli un’identità più precisa che possa metterlo sullo stesso piano del Sagrantino. Alcune realtà hanno fatto tesoro della consulenza di enologi toscani come Luca d’ Attoma (Carapace Lunelli), Emiliano Falsini (Bocale) o Paolo Salvi (Antonelli), e hanno trovato la quadra in anticipo, producendo versioni che “toscaneggiano” quanto basta. Altre, invece, hanno voluto tentare vie del tutto personali: per esempio aggiungendo della Barbera – come nel caso di Di Filippo e Tabarrini – per dare un pizzico di freschezza in più.
La domanda che emerge ovviamente è: può un Sangiovese umbro tenere testa ai competitor toscani e romagnoli? La risposta è: probabilmente si. Le versioni più interessanti, ovvero quelle non troppo conciate dalle uve internazionali, mettono insieme un’ esuberanza tutta montefalchese con la spigliatezza tipica dei vini a base Sangiovese e un tocco di ruvidità tannica in più data dal Sagrantino. Sono vini facili ma non troppo, indubbiamente gastronomici e discretamente longevi.
Anche la Riserva – categoria in crisi in altre zone – può avere un certo appeal in questo caso, perché molti produttori, avendo già il Sagrantino, evitano di caricarla troppo, cercando piuttosto un compromesso felice tra profondità e facilità di beva.
Trebbiano Spoletino:
Bocale – 2022
Il Trebbiano Valentini dell’Umbria: non per assonanze con la vecchia gloria abruzzese, ma perché il proprietario di quest’azienda, nonché ex sindaco di Montefalco, si chiama Valentino Valentini. E’ l’archetipo dello Spoletino: sprigiona aromi intensi di ginestra, papaya e pesca giallona, curcuma e timo, con un guizzo vegetale di fondo che ricorda la foglia di pomodoro. Accattivante per equilibrio tra struttura abbastanza solida e acidità dinamizzante, chiude sapido e piccante di erbe aromatiche.
Le Thadee – 128 2021
Potremmo definirlo il vino delle origini, perché proviene una delle pochi viti maritate agli alberi sopravvissute alla fillossera (grazie alla posizione a fondovalle e a un terreno particolarmente sabbioso). Ha un prezzo importante – sopra i 100 euro – giustificato almeno in parte dall’unicità del patrimonio genetico. Il profumo è di nespola, cappero e camomilla, con un leggero fondo di miele. Rispetta i tratti tipici del vitigno, con una progressione carica di frutto – ma calibrata da freschezza vegetale – e un finale in bilico tra miele e pepe bianco.
Cantina Ninni – Poggio del Vescovo 2021
Mettendo da parte i vini di Collecapretta, che purtroppo sono fuori DOC, i vini di Gianluca Piernera sono la migliore espressione dello Spoletino del comune di Spoleto. Il Poggio del Vescovo parte con un filo di riduzione, che va via abbastanza in fretta e lascia spazio a mela golden, scorzetta di limone candito, erbe spontanee. E’ sferzante, trascinante, con uno sviluppo di medio peso e un finale agrumato-salino quasi in stile Chablis.
Romanelli – Le Tese 2021
Le tese sono i tralci che, nelle vite maritate, si estendono da un albero a un altro. E, in effetti, da viti maritate proviene questo bianco con macerazione – ma non propriamente orange – che esibisce un colore pienamente dorato e profuma di origano tritato e coriandolo, albicocca e nocciola. Offre splendida freschezza abbinata a una polpa arricchita dalla macerazione, rafforzata da un tocco vegetale fenolico. Il contatto con le bucce, che può essere fonte di omologazione, qui va a potenziare l’espressione varietale.
Antonelli – Anteprima Tonda 2020
Non un bianco classico e nemmeno un Orange wine: l’ Anteprima Tonda – che dalla prossima edizione sarà vino da singola vigna e si chiamerà vigna Tonda – è una via di mezzo tra le due categorie. Affinato per sei mesi in anfora, ricalca lo stile de Le Tese, ma con un tocco di finezza in più: il profumo è di fiore d’arancio, seme di mandarino ed erbe disidratate con scodata balsamica. E’ grintoso e asciutto, il tannino da macerazione è percettibile ma egregiamente gestito; l’ acidità ben dosata dinamizza il sorso fino al finale garbato, gentile, con sottofondo intrigante di erbe aromatiche e salamoia.
Montefalco Rosso e Montefalco Rosso Riserva:
Di Filippo – 2021
Vino assaggiato in anteprima: uscirà sul mercato tra qualche mese. Da azienda biodinamica, composto da uve Sangiovese al 60% e saldo di Sagrantino e Barbera, fa affinamento in acciaio e brilla per spigliatezza e succosità, con un profumo vivace di violetta, visciola e melagrana e un sorso coerente, slanciato e saporito. Contemporaneo.
Bocale – 2020
Anche sul Rosso di Montefalco quest’azienda lavora bene, forte della consulenza del toscano Emiliano Falsini. Il Rosso 2020 sprizza freschezza quasi chiantigiana: ferro, felce, melagrana, qualche accenno di humus. E’ schietto e godibile, con tannino ben gestito e frutto invitante che domina la progressione semplice ma precisa.
Tenute Castelbuono Lunelli – Lampante Riserva 2019
Giuggiola, violetta e sottobosco, qualche ricordo di tabacco e un tocco balsamico da legno che non stona. Buona la dinamica per equilibrio e scorrevolezza, con tannino che asciuga senza graffiare e il frutto che domina il finale arricchito da un accenno gentile di tostatura da rovere. Ottima interpretazione moderna della filiale umbra del gruppo proprietario di Ferrari, prodotta con la consulenza del winemaker toscano Luca d’Attoma.
Tabarrini – Boccatone 2018
Non riporta in etichetta la dicitura “Riserva”, ma la complessità è quella delle versioni più ambiziose. E’ evidente già dal naso che mescola tratti terragni, ferrosi e animali con more e mirtilli neri, grafite e un soffio di spezie scure. La decisione di tagliarlo con una piccola percentuale di Barbera rafforza la scorrevolezza, anche se si tratta di un vino lontano dal concetto di “pronta beva”: ha spessore e tridimensionalità, tannino fieramente montefalchese che dà grinta al finale scuro e profondo.
Adanti – Riserva 2016
Sette anni di affinamento possono sembrare tanti, ma non lo sono per quest’azienda storica che il Sagrantino di punta, “Il Domenico”, lo rilascia a tredici anni di distanza dalla vendemmia. Ovviamente non si tratta della versione più espressiva sul fronte del frutto, ma offre splendida complessità boschiva – molto “toscaneggiante” – insieme a tabacco da pipa, cacao amaro e qualche idea speziata. Il frutto è ancora nitido, succoso e dà ampiezza e volume a un sorso piuttosto potente, con tannino rafforzato dal Sagrantino e finale ampio nei rimandi balsamici e silvestri.
Dai un'occhiata anche a:
- BraDeVi, la braceria irpina da non perdere
- Barolo en primeur 2024: la verticale di Barolo vigna Gustava, apre la quarta edizione dell’asta solidale
- Vini Rossi e Passito di L’Astore Masseria – Nuove annate
- Apotéke Vesuvio Caprettone 2023 Erre: Un’Eredità di Storia e Territorio
- I vini perfetti per la frittura di pesce
- AOC Saint Gallen 2022 di Wyss: un grande Pinot Nero svizzero
- Vini Fattoria La Valentina – Nuove annate
- Cinabro e Riserva Franzisca: due espressioni formidabili di Grenache da zone diverse