Angelo Pizzi e la longevità dei vini della Campania Felix secondo Parker

Pubblicato in: Il vino del Sud: i protagonisti

di Pasquale Carlo

Squilla il telefono. E’ Angelo Pizzi, e come sempre inizia a discorrere con voce appassionata. Quando Angelo irrompe con parlare veloce è sempre per richiamare l’attenzione su argomenti importanti. Ed è così anche stavolta. Ma questa volta i dati che vengono fuori dall’altro capo della conversazione sono veramente tanti, un boom di numeri, cifre, anni.


Riordinati i concetti, ecco che focalizziamo l’attenzione sul tema centrale del discorso, che va a collegarsi ai tanti interventi registrati in questo mese di luglio su cui è appena calato il sipario, che sarà sicuramente ricordato come un momento di forte dibattito sull’amore sbocciato tra il critico più influente della storia del vino Robert Parker ed i vini del centro-sud  dello Stivale, campani e siciliani in particolare.

Intanto Angelo continua: “Quello che va rimarcato – spiega – non sono i moltissimi punteggi importanti raggiunti dalle aziende della nostra regione, per cui possiamo anche non essere i primi in graduatoria. Bensì va sottolineato l’aspetto legato al periodo della maturità attesa dei vini campani”.

Si accende un flash. Nel leggere l’articolo apparso su questo sito due settimane addietro sui vini di Quintodecimo, certamente colpiva quella maturità attesa per il Taurasi 2005, per il periodo 2013-2023, così come quella del Fiano di Avellino (sia versione 2006 che 2007), con maturità indicata fino a dieci anni dopo dalla vendemmia. Ed Angelo aggiunge: “Discorso simile per i vini di Clelia Romano. Il Fiano Colli di Lapio 2010, a cui Parker ha assegnato il punteggio di 90, spinge il suo tempo di maturità  dal 2012 al 2020, così come il Greco di Tufo Alexandros, che di punti ne ha raccolti 91. E che dire del Taurasi Vigna Andrea 2007 (punteggio 93), la cui maturità attesa va dal 2014 al 2027? L’elenco – rimarca – potrebbe continuare a lungo, citando altre aziende”.

Aggiungo, da conoscitore più attento della terra sannita, i risultati che abbiamo già avuto modo di cogliere sul campo: la Falanghina 2001 di Libero Rillo ed il Gran momento di Flora 2002 (sempre falanghina) dei Pentri per quel che concerne i bianchi; l’Aglianico del Taburno Vigna Cataratte 1995 (provato nel marzo scorso) sempre di Rillo, per quel che concerne i rossi. Tutto questo, quando ancora non si credeva a questa enorme potenzialità.

Allora? “Quello che bisogna iniziare a raccontare – spiega Pizzi – è la grande longevità dei vini della nostra regione. Un discorso che va fatto a cominciare dai ristoratori, a cui bisogna spiegare che non aiutano il comparto quando si ostinano ad essere attenti solo alle etichette di annate recenti”.

Infatti, se è vero che qualcosa inizia a muoversi in questo senso anche nel campo della ristorazione, di certo lo scenario non è del tutto sgombro da “addetti ai lavori” ancora convinti che i vini dell’ultima vendemmia vadano assolutamente provati sul pesce della Vigilia di Natale, per quel che concerne i bianchi, mentre a stento si attende con particolare impazienza l’arrivo della primavera per degustare i rossi sull’agnello del pranzo del giorno di Pasqua.

“L’altra settimana – aggiunge Angelo per rafforzare la sua tesi – ho degustato per caso un Taurasi con trent’anni sulle spalle. Prodotto allora senza nessuna pretesa, nella vendemmia del terremoto e forse proprio per il terremoto dimenticato da qualche parte in cantina. Il risultato è stato sbalorditivo. Un’emozione veramente unica, anche per chi nel mondo del vino ci vive ormai da una vita. Del resto non stiamo inventando nulla. Non arrivavano dalla Campania, insieme alla Sicilia culla dei nettari più antichi, i vini più decantati dai Romani?”.

Ed è a questo punto che giunge la metafora: “Molto spesso ci troviamo tra le mani una bottiglia che è una Ferrari e finiamo a svenderla per utilitaria. Non è possibile che le nostre cantine, a distanza di solo otto mesi dalla vendemmia, siano costrette a svendere il prodotto per preparare il posto alle uve della nuova vendemmia”.

E’ in questa frase che cogliamo tutte le difficoltà di un settore. Difficoltà da cui non si può che uscire con il contributo di tutti gli addetti ai lavori del comparto. E su questo Angelo ha pienamente ragione quando parla di avviare un dibattito sulla longevità dei vini campani, soprattutto di quelli che nascono dai suoi vitigni principi: aglianico, fiano, greco e falanghina.

A dire il vero, noi siamo fermamente convinti anche dell’altra grande potenzialità della nostra terra, capace di produrre, in scenari più circoscritti, calici di beva più immediata grazie ai vitigni ingiustamente detti “minori”, come il piedirosso e la coda di volpe; oppure, scendendo ancor di più nel particolare, vitigni “locali” come ad esempio la barbera del Sannio.

Del resto i Romani non indicavano la nostra terra come Campania Felix?


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