di Raffaele Mosca
La differenza tra il vino di metodo e il vino di territorio la capisci in evoluzione: mentre il primo dà tutto subito e comincia a presto battere la fiacca, il secondo parte in sordina e poi esplode nel tempo.
È il sunto di una cena di mezzo Vinitaly, in una cantina che negli ultimi anni ha fatto molto parlare di sè. Merito di Marco Speri, lo scissionista della storica dinastia dell’Amarone che, dopo una lunga gavetta nell’azienda familiare, ha deciso di proseguire sulla sua strada e seguire un percorso in controtendenza rispetto alle tendenze in Valpolicella.
Oggi l’idea di “snellire l’Amarone” è qualcosa di cui tutti parlano, ma che pochi riescono a mettere in pratica. Marco ci è arrivato con un almeno un decennio di anticipo rispetto alla maggioranza dei produttori di zona, seguendo una ricetta molto semplice che passa per l’ attenzione maniacale alla cura del vigneto, tutto rigorosamente a pergola e coltivato con metodi biologici; per il non lasciar spazio per uve che non siano Corvina, Corvinone, Rondella e un pizzico di Molinara. Perché bisogna dirlo: uno dei problemi più grossi della Valpolicella è proprio quella percentuale minoritario di “altro” che si può legalmente aggiungere nel blend. “ Con l’appassimento diventa snaturante – spiega Marco – non tutte le uve hanno la capacità di dare grande complessità con l’appassimento come quelle tradizionali del nostro territorio. Se metti ad appassire il Merlot o il Cabernet Sauvignon, non ti rimane nulla da un punto di vista aromatico”.
In una denominazione che punta sull’estero, con molte aziende che esportano la maggioranza della produzione in Nord Europa, lui non fa mistero delle difficoltà incontrate negli anni nel confronto con questi mercati e con la critica internazionale. “ Tutti hanno seguito il gusto di alcuni critici per i quali l’Amarone non era Amarone se non era dolce, pesante e marmellatoso”. Tutti tranne i più scafati tra gli esperti e i bevitori italiani: “ L’ Italia è sempre stato il mio mercato più importante, perché è quello con il gusto più evoluto e più maturo”.
Si dice che l’Amarone non sia un vino per giovani, ma, anche in questo caso, le sue sue referenze fanno eccezione. “ I giovani apprezzano i miei vini e io sono sempre contento di interfacciarmi con loro, perché hanno una conoscenza e una voglia di approfondire superiore alle generazioni precedenti”.
Essere dei bastian contrari vuol dire anche fregarsene un po’ del cash flow immediato e mettere da parte un po’ tutto: dal Valpolicella “Base” al vino di punta. Ed è così che in questa cena organizzata da Sagna, rinomata realtà che in Italia distribuisce anche piccole aziende emergenti come Louis Roederer e Domaine de la Romaneè Conti, a lasciare interdetti non è tanto l’Amarone, quanto il trittico di Valpolicella invecchiati.
Il Valpolicella Classico 2016 ha la leggerezza dei vini d’entrata abbinata a una complessità aromatica da “Petit Amarone”: non c’è la ricchezza fruttata data dall’appassimento, ma il corredo classico di pepe e chiodo di garofano, spezie dolci, erbe officinali, humus e gheriglio di noce e lì in bella vista; ritorna sul fondo di una progressione ancora tonica, attraversata da freschezza anche vegetale che rende la beva compulsiva.
La 2013 è quasi controversa: a un naso più cupo e terroso corrisponde un sorso paradossalmente più fresco di quello della ‘16, con chiusura giovanile al sapore di erbe spontanee e arancia amara. Precede il Ripasso di pari annata che, invece, si sviluppa più in orizzontale, con tanto frutto ancora integro, acidità giusta in sottofondo a garantire godimento assicurato con salsicce, spiedini e barbecue.
Mentirei se dicessi che gli Amarone di Marco seguono sempre uno stile preciso: al di là del poco zucchero residuo – e ancora meno percettibile – la capacità di assecondare le annate prevale sulla ricerca di un gusto riconoscibile. La 2015 è più ricca: l’annata calda ha forgiato un vino meno austero del solito, con note di confettura di amarene, cioccolato alle nocciole e menta; ma piace per equilibrio tra freschezza e ricchezza fruttata-terrosa, con finale ampio ma senza peso. La 2013 ha un naso spettacolare, con spezie, erbe e fiori che prevaricano il frutto, ma è un po’ più scomposta in bocca: come se, volendo limitare la ciccia, sia emerso qualche spigolo in più e, per quanto straordinariamente fresco, il vino ha perso un po’ della sua piacevolezza incondizionata. La 2012 è un po’ sintesi tra i due: esuberante e stratificata al naso, con fiori appassiti, nocciola, sottobosco, lampi di confettura di mirtilli; Incredibilmente giovanile al palato, con nessuna percezione evidente di calore o dolcezza, anzi tanta freschezza e una polpa misurata, incorniciata da rimandi boschivi, che sfuma in un finale lungo e vellutato.
Probabilmente il racconto di questa piccola retrospettiva sarebbe stato fine a sé stesso se non fosse che, per i ristoranti e gli e precari interessati, è possibile replicarla. Sagna, infatti, ha in listino molti dei vini assaggiati e qualche altra vecchia annata, sia in formato classico che in magnum e doppio magnum. Non so voi, ma se io trovassi un Valpolicella classico o ripasso con qualche anno sulle spalle su uno scaffale o in carta non me lo farei scappare!
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