di Marco Galetti
La foto del vino incriminato è di Roberto Mostini
Oggi devo stare molto attento, il terreno per piantare i piedi ben saldi a terra è poco profondo, poi ci sono subito le rocce.
Non sono nelle vigne di Nicolas Joly, l’uomo de La Coulèe de Serrant, ma il terreno sul quale devo far nascere questa piantina è simile, la resa per battuta (di tastiera) come quella per ettaro forse sarà tra le più scarse, ma il ricordo è di fascia alta, sulla qualità, non posso garantire.
Lo sperone roccioso del vallone de Serrant è lì ad ammonirmi, lui è proteso verso il fiume io verso un ricordo che ha ben altre radici, dobbiamo andare indietro di un po’ di anni, perché, citando Vico, prima sentiamo senza avvertire, poi avvertiamo ma siamo perturbati infine riflettiamo con mente pura.
Questo è un bianco che si può bere anche dopo diversi lustri e il mio ricordo ha quella stessa età, chi mi ha iniziato a berlo, consiglia di farlo a casa, comunque senza fretta, adeguo le mie parole ai tempi che mi sono stati suggeriti e modulo il ricordo lentamente e senza premura.
“il vino continua ad evolversi, a sgranchirsi , a stiracchiarsi come un gatto pigro e per nulla voglioso di fare le fusa” (cit. dal libro di Roberto Mostini), anche il mio ricordo si era pigramente stiracchiato arrivando a nascondersi.
“…un vero viaggio sarà stato, attraversando giardini di fiori e frutti, cogliendo le profonde mineralità della roccia… tanti pensieri, tante cose in mente che scivolano via, dalla bottiglia al bicchiere, che a volte sembra mezzo vuoto, e a volte mezzo pieno…” (cit. dal libro di Roberto Mostini)…anche i miei pensieri e la mia mente scivolano via, riemergono frammenti che fanno sembrare questa vita, in fondo piena, talvolta mezza vuota…Liceo, due amici, Guido Laremi dipinto da De Carlo ha colori vivi e attuali, il futuro architetto, muoveva i primi passi e le prime ruote della vespa, in una Milano politicizzata e, nel contempo, nelle strade e nelle case di una Milano bene, con la quale aveva dimestichezza per cognome, libertà di manovra, aspetto e stile innato.
Scelse me, frequentai le amiche, le cugine, le amiche delle amiche, le piemontesi ricche e le milanesi ricchissime con le barche e le case sul mar ligure, ci si perdeva in quelle abitazioni, a Milano le cameriere, nostre coetanee, ci ricevevano con la crestina in testa…le piscine chiuse, sugli attici con vista Madonnina, aprendosi come per magia, lasciavano entrare il sole e tante ragazzine piene di soldi e desideri, erano gli anni delle dediche in radio, quelli delle grandi compagnie, delle feste nelle case o dei pomeriggi in discoteca.
Finsi di studiare, mi barcamenai, lui no, non finse, aveva una marcia in più, nei geni, non quelli della lampada, le ragazze lo prendevano d’assedio, situazione anomala ma piacevole, ne rifiutò parecchie, imparai a capirlo, la mia selezione fu meno accurata, portavo un eskimo e capelli lunghi, lui Ray Ban e cashmere sulla pelle, abbinava i colori, mi fece capire, capii, ancora oggi lo ringrazio per quel poco di gusto che gli ho rubato, avremmo potuto piantare filari più fitti ma lui, presto sulla tabella, si sposò ed io mi innamorai smettendo per un po’ di guardarmi intorno alla ricerca dei profumi dei fiori, dei frutti… il viaggio con questo vino porta lontano, il prossimo calice è un salto nel vuoto, lo riempio di ricordi che non bastano a sostenermi, mi ferisco col profumo dolce di burro cacao che sembra rimasto nascosto per anni sulle mie labbra.
Lei si chiamava Francesca, gli anni erano quelli descritti prima, quelli dell’adolescenza che va veloce, fu una storia breve, pura, eppure ogni tanto, quando davanti allo specchio mi piego per farmi la barba, mi sembra di risentire il profumo del burro cacao e le sue braccia che come fecero allora, mi stringono forte.
(Parziale ricostruzione di un mio caro e vecchio post, Un calice di burro cacao, già pubblicato su Armadillobar)
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