Alta Ristorazione: per fare qualità è per forza necessario ridurre i coperti? O ridurre i coperti è sintomo di insicurezza e scarsa professionalità?

Pubblicato in: I vini da non perdere

Negli anni ’90 l’enogastronomia italiana è stata modellata da due principi.
Primo, nel vino per fare qualità è necessario introdurre la barrique. Sempre e counque, non importano le caratteristiche del vitigno e le condizioni pedoclimatiche.
Secondo, nella ristorazione i critici hanno spinto per la continua riduzione di coperti, quasi che rinunciare al guadagno di qualche tavolo sia di per se stesso sinonimo di qualità.
Intendiamoci, in medio stat virtus, la barrique è utile strumento se usato bene e con cognizione di causa. Passare da cinque a quattro tavoli in una sala di 40 metri quadri è cosa buona è giusta.
Però, come tutte le ricette estreme le conseguenze sono state letali, perché la critica si è sempre più concentrata esclusivamente sul piatto a prescindere dalla congruità economica dell’impresa e, con l’ingresso in scena della televisione, si è tesi ad esaltare una cucina sempre più astratta, che prescinde dalla provenienza dei prodotti e dalla reale capacità creativa dei cuochi.

Fino al paradosso di una critica che nega se stessa, la sua stessa ragion d’essere sostenendo, portando sotto i riflettori ristoranti vuoti che non sono frequentati dal pubblico nonostante che il mestiere del critico dovrebbe essere quello di segnalare un ristorante ai lettori-clienti e non esaltare acriticamente il ruolo dei cuochi.
Dall’Eleven Madison ai Cerea passando per Le Cinq piuttosto che per il Lansbury invece vediamo che la qualità di un ristorante si misura anche con la capacità di fare volumi, di clienti, di fatturato. Di stare in equilibrio con i conti.
Se invece per sostenere le spese esorbitanti di un locale devo fare pubblicità, andare in televisione, realizzare dei pop out in Giappone e prestare la mia faccia alle multinazionali, allora vuol dire che qualcosa non quadra, che la mia sala sarà destinata ad ospitare sostanzialmente i critici e fuff blogger in cerca di notorietà che non pagano il pranzo perché i soldi servono per acquistare follower su Instagram e Facebook.

Un altro elemento fondamentale che misura il successo di un ristorante, oltre che pagare regolarmente i fornitori, è la sua adozione da parte del territorio. E viceversa.
Massimo Bottura è l’esempio più lampante di come, partiti da una clientela che chiedeva i tortelli con la zucca, si è impegnato nel sociale come nel culturale proprio a partire dalla sua provincia, così importante dal punto di vista gastronomico per tutta l’Italia.

Naturalmente ci sono modelli e modelli. Ma quello su cui puntiamo l’indice è l’autismo gastronomico di molti ragazzi che dopo aver fatto l’Alma e un paio di giri in qualche cucina stellata aprono il proprio ristorantino gourmet con tanto di sala ingessata spesso in posti impossibili da raggiungere e che, di fronte alla non sostenibilità economica, danno la colpa al mondo (la gente non capisce nulla, la critica è venduta) del loro fallimento annunciato.

Si è insomma creato, accanto alla gastronomia reale che vive tutti i giorni, una sorta di modello virtuale nel quale contano solo i like dei critici e non quello che si trova in cassa alla fine della giornata. Insomma, una realtà virtuale in cui critica e cuochi hanno dimenticato il motivo per cui esistono: i lettori e i clienti.

Questo paradosso nasce proprio dall’imperativo categorico degli anni ’90: riduci i coperti!


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version