di Luciano Pignataro
Alice Waters appartiene alla generazione più fortunata del ‘900, quella nata negli anni ‘40 e che ha potuto vivere la grande liberazione del ‘68 con la quale ha preso il potere. Non un potere ottuso, ma costruito sullo studio, sul progetto e soprattutto su un progetto di vita, qualunque sia stato il campo dell’impegno. Alice si dedica al food dopo una delusione politica e vede proprio nella gastronomia la vera frontiera dello scontro. Bella scoperta può obiettare qualcuno. Certo, oggi questi discorsi, che sconfinano con l’ambiente, possono sembrare scontati persino, ma nel 1971 erano di assoluta avanguardia.
Difficile pensare a zucchine, pomodori e melanzane quando il futuro nell’immaginario collettivo erano l’uomo sulla Luna oppure 2001 Odissea nello spazio. Ma aprendo un ristorante impostato sulle virtù biologiche degli alimenti prima ancora che nel metodo, Alice Waters ha aperto un orizzonte completamente nuovo.
Per noi italiani, latini, il sapore degli alimenti è qualcosa di importante, parliamo di mangiare mentre mangiamo. Nell’America del Dopoguerra cucinare era visto dalle donne come un doppio lavoro e tutti i macchinari inventati dall’industria per accorciare il tempo di cucina erano vissuti come una vera e propria liberazione dalle casalinghe.
Svendere il sapore in cambio del tempo, ecco lo scambio su cui punta l’attenzione sin dalle prime pagine del suo libro autobiografico “Coming to my senses” pubblicato in Italia da Slow Food Editore con il titolo: “Con tutti i miei sensi” (pp.352, prezzo 19,50 euro).
Ma ecco l’incipit che tutti i giovani cuochi dovrebbero imparare a memoria: «È così che cucino: prima vado al mercato dei contadini, dove compro un mazzetto di ravanelli, della lattuga a foglia rossa, dell’aglio novello, poi mi concentro sulla consistenza delle albicocche e delle prugne. Cerco la frutta e la verdura matura al punto giusto, quello che è appena spuntato da terra o che è stato appena raccolto. Non penso necessariamente a come accosterò gli ingredienti, mi baso su quello che trovo. In questa prima fase non so ancora che cosa cucinerò e non sto mettendo insieme il pasto. Solo quando porto gli ingredienti a casa, dopo averli tolti dal cestino e disposti sul tavolo della cucina, comincio a pensare a come armonizzarli e a come possano essere accostati per creare un menu. Uso tutti i miei sensi».
A ben pensarci è proprio così che cucinavano un tempo le mamme italiane. Partivano da quello che trovavano al mercato. In questi gesti c’è l’atto di ribellione all’omologazione imposta dalla grande industria, la reazione ai suoi ricordi di bambina quando il cibo usciva da porte di metallo previa introduzione di una monetina. Negli Usa negli anni ‘40 accadeva esattamente quello che poi è successo in Italia dagli anni ‘60 in poi e a cui solo nell’ultimo periodo si sta ponendo un freno. Dalla tavola al prodotto, è questa, in sintesi la grande rivoluzione che Alice Waters nel ristorante “Chez Panisse” di Berkeley, che ha cambiato la cucina americana negli anni Settanta dichiarando la sua guerra al cheeseburger e introducendo i cibi naturali ma buoni e sani.
Stagionalità e territorialità, ma anche produzione. Sono le frontiere del cibo a cui noi tutti possiamo partecipare, perché non si deve vivere per forza in campagna per coltivare qualcosa in proprio. Il libro è una lettura semplice in cui ricordi di cibo, di incontri, di amori, si intersecano su alcuni principi fondamentali che la cuoca ha elaborato nel corso degli anni. Una scrittura semplice e digeribile, uno spaccato dell’America che non ha paura del nuovo, che essa stessa diventa nuovo. L’influenza che ha avuto è stata impressionante, valga per tutti l’appello di Michelle Obama alla coltivazione degli orti urbani. Questa donna insegna raccontando invece di enunciare. E’ il suo esempio che mette davanti agli occhi. Per questo si tratta di una lettura istruttiva che ogni cuoco moderno dovrebbe fare prima di accendere i fornelli.
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