Nel 1973 Alfonso e Livia Iaccarino aprirono il loro ristorante intitolandolo al nonno: nacque così il Don alfonso 1890, il locale che più di ogni altro ha influenzato l’alta cucina italiana nel Mezzogiorno diventando il primo Tre Stelle Michelin della storia al Sud.
Nel 1990 al culmine del successo, Alfonso e Livia fecero un passo ulteriore: comprarono una proprietà a Punta Campanella per produrre olio, ortaggi, frutta, agrumi in regime biologico certificato anticipando di quasi trent’anni la moda dell’orto che ha investito l’alta ristorazione. Alfonso Iaccarino ci spiega da dove nacque questa esigenza: “Sicuramente i francesi hanno dettato le regole in questo settore grazie anche alla loro esperienza. Noi italiani abbiamo iniziato ad imitarli, ma se è vero che c’è sempre da imparare, è anche vero che io ad un certo punto capii che bisogna attingere alle nostre tradizioni, ai nostri beni, tutelare la biodiversità del nostro territorio. Mentre altri si compravano auto e ville io ho investito comprando il terreno a Punta Campanella dove ho potuto fare e fare tante sperimentazioni sulle verdure, i legumi, l’olio, la frutta, i limoni. Nelle campagne non esistono più le api, gli insetti e dunque anche gli uccelli. C’è il paradosso per cui si trovano più insetti in città che nelle estensioni agricole intensive. A Punta Campanella invece c’è di tutto, dobbiamo tornare alla biodiversità del passato, uscire dall’ossessione delle grandi quantità e dei prezzi bassi, puntare ad uno sviluppo del settore alimentare più equilibrato che tenga conto della salute dell’ambiente e dell’uomo”.
Oggi può sembrare strano che l’attenzione dell’alta ristorazione sia puntata in maniera così decisa sull’orto, ma è proprio l’autoproduzione di materia prima uno dei temi portanti in questo momento dei cuochi più famosi del mondo. E’ davvero tramontata l’epoca in cui il ristorante si distingueva per l’uso di prodotti di lusso. O meglio, forse è più preciso affermare che sono cambiati prodotti di lusso e che oggi un pomodoro biologico è ben più importante di un foie gras e che l’olio d’oliva è una grasso assolutamente superiore al burro di Normandia. Oggi la sapienza del cuoco è proprio nella capacità di approvvigionarsi di prodotti tipici e salutari, sia per l’uomo che per l’ambiente. La tecnica è uguale ovunque nel mondo e si può apprendere molto più facilmente, il lavoro di ricerca dei produttori artigianali di qualità, avere rapporti con gli artigiani invece di sfogliare i cataloghi, fa la differenza in cucina perché solo la biodiversità offre una ragione vera al viaggio. “Solo gli ignoranti – spiega alfonso -pensano che le cose siano semplici: la nostra società si è progressivamente impoverita, di spezie, di erbe, di specie animali, di ricette e poi anche di vocaboli. Ma la lezione di questa emergenza ci ricorda che siamo essere umani, che nulla è per sempre e che per superare i pericoli servono intelligenza e competenza”.
L’orto è dunque la metafora di questo cambiamento culturale in corso, tanto più importante in quanto le merci e gli uomini oggi viaggiano da un capo all’altro del mondo e un territorio per essere attrattivo e competitivo deve dunque esprimersi attraverso i propri prodotti.
La giornata di Alfonso Iaccarino è intimamente legata al suo orto, alla proprietà di Punta Campanella: da quando il figlio Ernesto è entrato in cucina, lui si dedica all’approvvigionamento della discesa. Ogni mattina va con il furgone nella sua proprietà, ci trascorre almeno tre o quattro ore e per ora di pranzo torna cari o di prodotti di stagione. Già, perché la stagionalità è un altro elemento che distingue una cucina vera da una che non ha prospettive: non c’è nulla di più sbagliato di voler mangiare tutto sempre. Proprio questo atteggiamento è all’origine di un sistema produttivo sbagliato che pesa sull’ambiente e sulla salute dei terreni oltre che sul gusto perché per avere pomodori in inverno non c’è altra strada che la produzione in serra o l’importazione da paesi lontani. Invece bisogna seguire i colori, bianco d’inverno, verde in primavera, rosso in estate, marrone d’autunno. Un vero menu non può ruotare meno di quattro volte l’anno.
Alfonso ha le idee chiare: “Nessuno mi toglie dalla testa che vivere in un ambiente inquinato, mangiare cibi in scatola con coloranti e conservanti, oppure vegetali modificati geneticamente, non indebolisca le nostre difese immunitarie. Pensiamo anche a quante allergie abbiamo oggi che prima non esistevano. Non siamo cambiati noi, è cambiato il nostro modo di mangiare. Del resto la scienza è chiara: un terzo dei tumori è dovuto alla alimentazione sbagliata. Il nostro più grande è stato quello di mangiare troppa carne. Ma non solo: una carne di qualità sempre peggiore e trattata chimicamente di animali vissuti male. Nessuno, un secolo fa, avrebbe creduto mai che la carne sarebbe diventato il cibo dei poveri. Abbiamo importato un modello anglosassone, di quelle popolazioni che era dominate dai Romani che si nutrivano di grano, farro e aglio».
In sostanza, oggi i poveri mangiano quello che era il cibo dei ricchi e viceversa. Questo il paradosso iperproduttivo che ha portato i pulcini a diventare polli in poco tempo senza poter neanche camminare, o avere carne di animali piena di antibiotici.
Alfonso Iaccarino e l’orto biologico
Ma secondo Alfonso Iaccarino, il punto vero, quello che può interessare al gastronomi a prescindere dai discorsi sulla salute e sull’ambiente, è la continua e progressiva perdita di sapore degli alimenti: “Quando sto fuori ogni cosa che si desidera è davanti al banco, puoi comprarla perché la distribuzione mondiale è più forte delle stagioni e delle distanze. Poi però addenti quella frutta, mangi quella verdura e non sanno di nulla, nonostante siano perfettamente esposte e molto belle a vedersi. Poi mangi un pomodoro San Marzano, una albicocca del Vesuvio e senti il sapore in bocca. Voglio dire che abbiamo di che costruire il nostro futuro ed essere competitivi: puntando sulla qualità alla quale nessuno può accedere perché le condizioni pedoclimatiche non si possono spostare da un capo all’altro del pianeta. Per fortuna le cose stanno cambiando e noi come ristoratori ce ne stiamo accorgendo. Oggi possiamo scegliere fra tanti pomodori di qualità, tanti olii extravergini, legumi, produzioni artigianali, formaggi, impensabili sino a vent’anni fa. Siamo stati noi del Don Alfonso i primi ad inserire i vini campani in carta, e allora per un tristellato sembrava una bestemmia, si può capire come sia cambiata la situazione”.
Dunque, per tornare al tema, l’orto non è solo un pezzo di terra coltivato, è una visione della gastronomia, non a caso è una moda attaccata da coloro che vendono per catalogo e che criticano la sostenibilità di un simile modello, oggi adottato un po’ da tutti anche in Italia (pensiamo solo a Crippa e ad Antonia Klugmann). La tesi è che non è possibile esportare questo modello a tutta la ristorazione, soprattutto quando parliamo di locali che operano in città. Una obiezione che può essere fondata se non fosse che porta al suo opposto, l’immobilismo. Come tutte le rivoluzioni, fare un orto per il ristorante non è una cosa impossibile, ci sono modelli produttivi che funzionano anche nelle città. E in ogni caso chi opera al Sud e rinuncia ad operare in questo modo è come un pugile che scegli di combattere con una mano legata dietro la schiena.