Alfonso Caputo di Taverna del Capitano a Nerano: il cuoco e il mare

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Taverna del Capitano a Marina del Cantone, Nerano NA. Alfonso Caputo ed il suo pescatore di fiducia

Taverna del Capitano a Marina del Cantone, Nerano NA. Alfonso Caputo ed il suo pescatore di fiducia

di Luciano Pignataro

Alfonso Caputo nasce nel 1970 sul mare che bagna Marina del Cantone, una delle due spiagge di Nerano, frazione di Massa Lubrense. E qui vive e lavora da sempre in perfetta simbiosi con la matura perché sin da piccolo ha coltivato una passione che non ha mai abbandonato, la pesca. Quando non può attende sul pontile il pescatore per scegliere cosa cucinare. Ma il piatto che ci propone in questa calda estate è la melanzana fritta. Procediamo con ordine.

La sua storia inizia tre anni prima della sua nascita, quando nel 1967 Salvatore Caputo e la moglie Maria Grazia aprirono il ristorante Taverna del Capitano sulla spiaggia, anni d’oro, quando il jet set popolava la Costiera Amalfitana. Inizialmente sembrava avviato a fare altro dopo il diploma in Ragioneria, ma dopo aver fatto la prima stagione estiva decide di approfondire la cucina. Lo fa alla grande, andando diciottenne a bottega da Gualtiero Marchesi al tristellato Bonvesin de la Riva , poi una tappa da George Blanc, a Evian e tra i primi in Giappone quando ancora la moda nipponica non era pienamente esplosa in Italia.
Dopo oltre cinque anni torna nella cucina di Taverna del Capitano ed inizia a risalire la corrente.

“Erano davvero altri tempi, i piatti di pasta per esempio venivano considerati solo dai 200 grammi in su, noi iniziammo a proporre 100 grammi per dar modo di provare anche altre cose e chiaramente venivamo contestati. Un’altra cosa oggi incomprensibile è quando provano a proporre altri pesci che mi venivano regolarmente mandati indietro come le alici, lo sgombro, lo stesso tonno. All’epoca la clientela chiedeva sempre e solo spigole e orate”.

Diciamo che ne sono cambiate di cose allora. Come mai?
“Oggi i clienti sono molto più acculturati, c’è ancora tanta ignoranza ma devo dire che si apprezza quello che prima veniva disprezzato. Penso anche al quinto quarto di mare, dove c’è il sapore vero dell’animale, apprezzato solo di recente dai veri gourmet. La gente o cercava quello che si faceva a casa o voleva andare al ristorante cercando prodotti costosi per dire che aveva mangiato bene.”
Insomma, chi voleva fare qualcosa di diverso doveva navigare controcorrente.
“Certo, soprattutto perché Taverna del Capitano è a dieci metri dal mare. Ma, d’accordo i nostri genitori, con mia sorella Mariella, una delle prime sommelier donna in Italia, e suo marito Claudio, abbiamo sentito la necessità di smarcarci, di guardare avanti e intercettare un pubblico nazionale e internazionale. Non è stato facile ma ci siamo riusciti”.
Arriva la prima stella nel 1996, una bomba.
“Se devo essere sincero, noi quando arrivò non capimmo bene cosa significasse sul piano pratico. Non ne cogliemmo l’importanza.  All’epoca non c’era l’ossessione della stella Michelin, le guide italiane come il Gambero Rosso diretto da Stefano Bonilli e l’Espresso di Edoardo Raspelli dettavano la linea e disegnavano la gerarchia. Leggendo le storie di altri colleghi mi sono reso conto che era un atteggiamento comune. Cominciammo a vedere la differenza quando grazie alla stella la clientela internazionale puntava decisa su di noi e non solo dalle barche, ma anche in auto.”
Poi negli anni il rapporto fra Michelin e guide italiane si è rovesciato.
“E’ così, e questo ci dispiace, ma è un dato di fatto. Per i giovani e molti imprenditori la stella è un obiettivo di vita”.

Nel 2004 la seconda stella, poi persa qualche anno dopo.
“Quella fu una svolta che smentiva tante voci che all’epoca circolavano e che in parte ancora ci sono”.
Per esempio?
“La più diffusa era che bisognava avere la cantina di vini francesi per essere presi in considerazione. Poi che non bisognava fare la pasta e puntare sul riso, ancora c’era l’idea di dover evitare il pomodoro”.

Erano dicerie di una parte della critica del Nord non conosceva questi prodotti, i fatti lo hanno poi dimostrato ampiamente.
“Non lo so. Noi abbiamo cercato di proporre una cucina in versione moderna senza rinunciare a nulla dei pilastri della nostra tradizione. Non a caso la Michelin premia Napoli come prima provincia stellata italiana. Oggi tutti i grandi chef si misurano con il pomodoro, tanto per dire. Noi abbiamo puntato soprattutto nel migliorare il servizio, aumentare l’offerta della cantina, degli oli, creare un ambiente confortevole e non arrangiato come spesso ancora vediamo in giro”.

Quali sono gli obiettivi di Taverna del Capitano?
“E’ in corso il cambio generazionale, il 2024 è stato epocale perché abbiamo aperto la terrazza dopo tanti anni e lì proponiamo la cucina d’autore con mio figlio Matteo ai fornelli e Federica, la glia di Mariella e Claudio in sala. C’è energia nuova. Nelle sale tradizionali proponiamo piatti tradizionali con prodotti di alta qualità e bene eseguiti tecnicamente. Siamo in fase di sperimentazione, ma abbiamo la certezza che l’impresa avviata da nostro padre ha un futuro. E questa è la cosa più bella che ci motiva ancora come il primo giorno”.

 

La ricetta. La melanzana ripiena fritta

La melanzana va tagliata ai bordi per evitare di farla scoppiare durante la frittura. Va fritta intera, non sbucciata. Una volta fatta questa operazione aspettare che si raffreddi. A questo punto introdurre la provola affumicata, possibilmente del giorno prima in modo che si presenta più asciutta e non caccia acqua. Inserirla in forno a 180 gradi per qualche minuti e servirla su una salsa di pomodoro fresco. A pensarci, è una versione un po’ diversa della parmigiana di melanzane. Ne vado pazzo e spesso la cucina solo per me.


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