Capisci di amare qualcuno o qualcosa quando ti trovi a fare i conti con la mancanza. Di una persona speciale, di una terra, di certe abitudini, per dire. E quando la senti, la mancanza, non fai altro che pensare e ri-pensare, più o meno inconsapevolmente, a volte con il sorriso stampato in faccia, lo sguardo assorto, gli occhi più o meno chiusi. Batte il cuore, senti forte la voglia, il desiderio. Tutto questo, può capitare, appena prima delle urla del professore che ti richiama all’attenzione, con una prolungata esitazione, nel mio caso, sulla vocale finale del cognome. Ebbene sì, a scuola ero spesso “nostalgico”.
La “nostalgia canaglia che ti prende e che ti porta via” mi prende con una certa frequenza ma non mi porta via altrettanto spesso. Eppure le possibilità per tornare a casa non mancano: auto, treno, aereo. Fanno più o meno 800 km, percorribili in 8-5-4 ore, a seconda del mezzo prescelto (in aereo ci impiego più o meno lo stesso tempo che mi occorre in treno, contando check-in/-out e rientro a Benevento da Capodichino).
Solo che spesso il lavoro mi trattiene qui. E non mi resta, quindi, che giocare a fare il disadattato, contravvenendo alle stupide ma (certe volte) indispensabili routine metropolitane e mettermi a fare le cose che faccio abitualmente quando sono al Sud. Tra queste, bere e mangiare (non che al Nord non lo faccia, anzi).
E così mi ritrovo quasi senza pensarci al volante, imbocco l’A8 in direzione Svizzera (paradossalmente ancora più a Nord) per andare a pranzo nel ristorante nuovo di pacca del conterroneo Ilario Vinciguerra.
Confesso che aiuta, e non poco, la struttura incantevole e lo scenario un po’ bucolico, un’oasi di verde in mezzo al grigio che domina la stessa Gallarate. Mi sono sentito subito a casa. Ed è andata ancora meglio per tutto il tempo che sono rimasto seduto a tavola, compreso quando lui, lo chef, si è avvicinato per fare due chiacchere con il classico timbro di voce di uomo del Sud e quell’accento che non si può proprio perdere. E già c‘aveva pensato prima, a farmi ambientare, con un paio di cosette di quelle che urlano la propria… napoletanità, si può dire!?
Okkei, non sono napoletano. Mi capita di dire sono di Napoli solo se voglio tagliare corto, per il resto preferisco sempre rispondere sapendo già di dovermi ripetere alla scontatissima domanda successiva, dov’è Paduli? Ma sono altri discorsi. Taglio corto anche qui e vi dico subito a cosa mi riferisco.
Innanzitutto, lo spaghetto di gragnano con la scarola e la colatura di alici. Una goduria. Con quella nota verace dominante e la spiccata territorialità regalata dall’uso assolutamente non parsimonioso della colatura.
E, infine, la pastiera napoletana al cucchiaio, l’oro di Napoli, come lo chiama lui. In due parole, un macaron di pastiera servito già adagiato sul cucchiaio. Pronto all’uso, insomma. Una vera pastiera, solo di forma diversa.
Che poi, sta forse proprio in questo la genialità di un personaggio che è rimasto fortemente ancorato alle sue origini: nel guardare indietro, alla tradizione, interpretandola con creatività. Con le mani e, soprattutto, col cuore.
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