di Catia Sulpizi
Food&beverage manager di testa, cameriere nell’animo.
Lo sa lui. Lo sa la proprietà. Lo sa il suo staff del Mandarin a Milano.
Il genere non mi è nuovo, ma credevo appartenesse solo al mondo “cuochi” e invece altro che mestiere di secondo ordine, all’ombra, sfigato, poco dignitoso da cui scappare o da vivere solo come trampolino di lancio per poi impersonare carriere di successo.
Anche in sala si soffre di “saudade” da servizio.
Ovvero quella forma di malinconia, affine alla nostalgia, che ti colpisce quando ti viene data la possibilità di spiccare il volo o quando le condizioni ti favoriscono per migliorare e a te manca il non vivere la tua condizione originaria.
Ecco Alberto Tasinato è un f&b, un bravo e responsabile f&b, ma per esserlo sua “conditio sine qua non” è :
Alle 19:00 spegnere il computer e portare i piatti. Alberto ha bisogno del servizio, di essere cameriere per fare bene i conti, di parlare con i clienti per prendere idee nuove, del contatto con i suoi ragazzi per sentirsi sempre uno di loro e capirli nel loro problematiche.
Un paio di sensazioni a riguardo le avevo avvertite precedentemente; la prima durante le interviste con lo staff: io cercavo di capire come tutti si relazionassero con il gran capo, come un ordine dall’alto arrivasse all’ultimo della squadra e loro quasi sorpresi di queste mie domande, ne parlavano senza nessuna distanza, descrivendo una relazione alla pari durante il servizio.
La seconda mi veniva dalla modalità di organizzazione delle interviste stesse: i ragazzi a cui far domande erano molti e il tempo limitato dal mio treno di rientro, malgrado questo Alberto si è messo per ultimo nella scaletta “fai loro prima che ci tengo, mi piace molto questa tua idea di parlare anche con il commis…io poi ho il servizio ci vediamo dopo”.
La chiacchierata con lui quindi ha chiuso il cerchio perfettamente.
Il cerchio del perché le cose funzionino.
Ognuno della squadra, compreso Alberto, mi ha dato il loro perchè: professionalità, impegno, motivazione, sostegno della proprieta, dinamismo, calore, fiducia, equilibrio, età, complicità, allegria, volontà. Ho ragionato su ogni loro perché, effettivamente sono tutti riscontrabili e quindi veri, ma qual è il perché originario? Quello da cui poi derivano tutti questi?
È il rispetto.
Il rispetto verso se stessi.
Alberto è stato vincente perché ha basato il team sul rispetto per se stessi.
Il rispetto verso se stessi porta in automatico al rispetto verso l’altro, verso il lavoro, verso il cliente.
Viceversa non funziona.
Insegnare ai ragazzi solo il rispetto assoluto del cliente senza prima avergli insegnato ad avere valore per se stessi non porta un ottimo servizio, porta ad un servizio forse impeccabile, ma con crepe e forzature.
Scegliere di dare valore al cliente perchè questo determina anche il proprio di valore porta al servizio del Seta.
Dove non si può essere bravi camerieri senza essere persone per bene.
Dove:
Essere puntuali non è un obbligo, ma una gratificazione personale.
Avere la divisa perfettamente stirata “non è la regola”, ma il migliore dei biglietti da visita che tu desideri per te stesso.
Fare uno straordinario per un collega che sta male non è un ordine che viene dall’alto, ma la tua volontà di essere affidabile.
Studiare tutti i giorni non è per per essere il più bravo, ma per poter insegnare all’ultimo arrivato.
Andare in copertura su una debolezza dell’altro, non è per evidenziare la sua incapacità , ma per proteggere un servizio che tu stesso vuoi che non vacilli.
Dove il cliente soddisfatto non arricchisce (solo) le tasche del padrone, ma il tuo bagaglio personale e professionale.
Come fa Alberto a fare tutto questo?
Con “la diligenza del buon padre di famiglia” che mette in atto ogni giorno dando esempio di comportamento.
“Generalmente non alzo la voce, non imprimo ordini indissolubili, metto in atto quello che ho imparato dal mio maestro, io faccio, cerco di fare più possibile, cerco di dare il buon esempio, di comportarmi bene su tutto e con tutti, perché sono fermamente convinto che se lo staff vede questo poi si allinea da solo e non vorrà mai darti una delusione”.
That’s it!
Ed ora Alberto, da Ivrea, classe 1985.
Raccontami il tuo percorso formativo
“Ho fatto l’alberghiero e ho scelto cucina, sin da subito però mi sono reso conto che non mi piaceva, ugualmente ho finito il percorso perché consapevole che nel bagaglio di formazione di un bravo maître sapere di cucina fosse fondamentale (ragionamento lodevole) e perché il mio migliore amico faceva cucina (ragionamento più credibile a 14 anni). Le estati di quegli anni poi facevo le stagioni in sala. Nel 2007 la mia prima vera esperienza all’ hotel Capo D’Orso a Palau, un’esperienza di grandi numeri a Londra, poi Trussardi alla Scala (quando era ancora senza stelle) come chef de rang. Estate 2008 vado al Pellicano e conosco lo chef Guida. Sono tornato al Trussardi stavolta come maître, avevo 25 anni e sono rimasto fino ai 28. Esperienza di un’apertura con lo chef Torretta presso il Visconti Palace, infine torno nuovamente con Berton per l’apertura del suo ristorante, ma rimango solamente 8 mesi”.
Cosa hai portato a casa da ognuna di queste esperienze?
“All’hotel Capo d’Orso ho conosciuto il maestro che porto nel cuore e nel lavoro, Claudio Romanini. A lui devo il tipo di approccio a questo lavoro, era una persona calma, pacata, ma sempre risolutiva, mi diceva “se urlo non va bene perché l’urlo porta l’ansia e l’ansia poi ce la portiamo tutti dietro. Dal Trussardi alla Scala la precisione, dall’esperienza al Visconti il problem solving, dall’apertura del ristorante di Berton la consapevolezza di non volermi ancora staccare dal servizio per dedicarmi totalmente alla gestione amministrativa. Sentivo che era troppo presto per saltare un servizio magari per andare a versare l’incasso in banca, questo malessere mi portava a non essere un esempio per i ragazzi. Da Guida l’eleganza con i piedi per terra”.
Ed oggi ti sai staccare dal servizio?
“No, la fortuna è che la proprietà ha creduto che questo attaccamento, se ben equilibrato con i miei doveri da f&b, potesse essere un potenziale. Faccio calcoli su calcoli, ma poi alle 19:00 stacco e vado a fare il servizio”.
E la squadra che pensa di questa cosa?
“C’è un tacito e rispettoso consenso. Io capisco le loro esigenze e loro capiscono la mia. Non faccio il servizio per protagonismo o per metterli in ombra, al contrario se un cliente finisce la cena, se ne va senza salutarmi, ma magari saluta per nome uno dei miei ragazzi, io ho vinto”.
Riesci a delegare?
“Si, ma dando prima un’impronta generale”.
In che senso?
“Esempio sulla carta dei vini, prima ho fatto la carta poi ho lasciato ad Ilario la scelta di aggiungere 20 vini che esprimessero la sua identità”.
Sei sicuro che questo voglia dire “delegare”?
“Beh Ilario è anche arrivato dopo che io ho iniziato a fare la carta. Oggi per le etichette nuove lui porta le sue idee e poi decidiamo insieme. Sulla carta cocktail invece non essendo io uno che sa fare i cocktail ho dato delle indicazioni generiche e poi i ragazzi hanno deciso i cocktail.
Si Alberto, ma la premessa “non essendo io uno che sa fare i cocktail” la dice lunga sul fatto che se tu fossi stato in grado anche di fare i cocktail magari avresti fatto totalmente la carta e lasciato ai barman 5 drink per dare la loro impronta! Non pensi?
“Effettivamente (ride)”.
Quanto influisce la personalità dello chef nello stile del servizio?
“Immaginati lo chef come un filosofo e noi come discepoli a servizio per divulgare e valorizzare i suoi credo. Nel mio caso ad esempio durante la prima esperienza da Trussardi alla Scala il focus era totalmente sulla valorizzazione della cucina di Berton, quando sono arrivato al Pellicano mi sono reso conto che invece li il focus era totalmente sul cliente, lo chef Guida non aveva problemi a fare anche due passi indietro per far star bene l’ospite. Poi quando sono tornato da Berton per l’apertura del suo ristorante anche lui si era centrato sui bisogni del cliente in una veste ancora più completa quella dello chef/patron È naturale che modalità di pensiero diverse portano azioni diverse”.
Che pensi della comunicazione che si sta facendo oggi sulla sala?
“Si legge ancora troppo spesso la parola emergenza, la parola crisi. Questi termini sono stati funzionali all’inizio per attirare l’attenzione e devo dire che ha funzionato, ora è il momento dello step numero due, ovvero raccontare il bello di questo mestiere. Dire “nessuno vuole fare il cameriere, ma non sapete che facendo il cameriere ogni sera conosci persone da ogni parte del mondo, fai tante degustazioni, visiti cantine spettacolari, puoi lavorare in ogni angolo del pianeta”. La nascita di associazioni come “Noi di Sala” o di scuole di sala come Intrecci vanno supportate con una comunicazione motivazionale e non di allarme”.
Come sei partito nella progettazione del servizio del Seta?
“Per prima cosa ho cercato di capire quale fosse l’ideale di servizio dello chef Guida per lo stile di cucina che voleva fare. Per lui era importante avere un servizio attento, preciso, cordiale e in linea con i traguardi che volevamo aggiungere. Ho aggiunto la volontà della proprietà: per la compagnia Mandarin è fondamentale il “sense of place”, questo Mandarin è il primo in Italia, come tale deve essere in grado di caratterizzare e trasmettere il senso del posto che lo ospita. A mio avviso sul servizio noi ci identifichiamo nel “calore dell’ospitalità. Successivamente ho valutato le difficoltà: quella maggiore poteva essere la locazione all’interno di un hotel, per di più un hotel che rappresenta il lusso, in Italia non c’è l’abitudine di cenare negli alberghi, il rischio poteva essere di rilegare la location solo per “occasioni speciali”, ho capito che dovevo alleggerire l’ambiente e così ho scelto una squadra giovane. Mescolando questi tre fattori è nato il servizio del Seta”.
Cosa vedi migliorabile nel sistema guide ?
“Le guide devono salire con il loro peso, mi sembra che ormai tutti si possano permettere di contestare, questo non può essere funzionale, non è un referendum popolare è una guida, va accettata come giudizio sopra le parti”.
Una dote che ritieni indispensabile per essere un buon cameriere.
“La capacità di ascolto. Del collega ancor prima che del cliente”.
Un difetto che non sopporti.
“Il pressapochismo. Sarà banale dirlo, ma sono i dettagli che fanno la differenza”.
Si arriverà ad andare al ristorante per la sala?
“Si certo, perché per il cliente sarà sempre più importante fidelizzare ed avere un riferimento che cura la sua esperienza di piacere in generale non solo sul cibo”.
Sei soddisfatto?
“Sono felice, siamo felici. Questo è meglio”.
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Le precedenti interviste sulla sala
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