di Catia Sulpizi
Dicono che i figli sono il ritratto dei genitori.
Lo stesso è per “le sale” con i loro direttori.
Sono le 12:00 mi trovo all’interno del Mirabelle, la giornata non è delle migliori, il cielo è chiuso, ma la luce riesce ugualmente a dominar ogni spazio, accompagna ed evidenzia dettagli che molto raccontano della vita che ogni giorno si anima tra queste mura.
In un fermo immagine, tutto può avere la sua ragion d’essere ieri, come oggi, come domani.
Senza tempo.
Come La Venere del Canova.
Un maglione di cashmere.
Uno spaghetto al pomodoro.
Un Romanée St.Vivant di Madame Leroy (D.C. docet).
“L’estrema cura del dettaglio” è il fil rouge che unisce una sala contemporanea come quella di Tasinato al Seta a quella neoclassica di Costanzi al Mirabelle.
Le porte dell’ascensore talmente lustre da sembrar specchi nell’ottone
La profumazione della sala che va oltre lo scontato sentore di pulito senza essere invasiva.
Il tovagliato che in prospettiva è tutto perfettamente allineato oltre che rigorosamente stirato sul tavolo.
Le posate e i bicchieri senza il minimo alone.
La moquette a cui non sono riuscita a trovare un pelo o un capello di troppo in controluce.
Le lampade Flambé tirate a lucido.
Non un oggetto di troppo, come una penna, un accendino, un blocchetto delle comande, un quotidiano, delle chiavi, un telefonino, degli occhiali, un appunto, una fattura, una bottiglia, a vista.
E i fiori.
Tanti, tantissimi, freschi, curati con dovizia (poi scoprirò come).
L’accoglienza di Luca Costanzi , impeccabile nel suo completo, non poteva che essere con un baciamano da manuale.
Con Costanzi ho deciso di aprire una rubrica nella rubrica chiamata: I Kamikaze di sala.
Dopo Luca Vissani, non posso che inserirci lui.
E vi spiego perché:
La sala che oggi è presieduta da Costanzi è stata per 15 anni diretta da un colosso come Bruno Borghesi.
Per i pochissimi che non conoscono la sua figura il Sig.Borghesi è colui che ha portato l’alto servizio in Italia.
Definito da Giraudo “il suo mentore”, creatore e patron del Sans Souci (dal 1965 al 2000), esempio ancora insuperabile di arte di accoglienza.
Non un luogo, ma Il Luogo, di principi, ambasciatori, uomini della prima Repubblica, attori, industriali.
La casa dell’alta borghesia romana.
Li ho mangiato la mia prima scaloppa di foie-gras, bevuto il primo Vintage Tunina, visto la prima esecuzione in sala di crêpe Suzette.
Ricordo i preziosi velluti, l’argento, i cristalli, le statue di marmo e Lui che in pieno servizio appariva sempre come un principe tra i principi.
Un savoir faire di innato talento.
Poi, mi sono per un attimo immedesimata in Luca nei primissimi giorni da direttore che va al tavolo del cliente che per 15 anni è stato abituato ad essere servito da Borghesi e mi sono detta “solo un pazzo avrebbe accettato una tale sfida, una tale eredità”.
E invece non solo ha accettato l’incarico, ma quest’anno ha conseguito il Premio “Miglior servizio di sala” per la Guida di Repubblica e per quella del Gamberorosso.
Decido di volerli entrambi per questa intervista, una dinastia di sala come questa va raccontata, ma il Sig.Borghesi declina, non rilascia interviste da molto tempo “ho 83 anni, ne ho viste molte, ho dato la mia vita per questo lavoro, ma ora sono troppo sfiduciato per come stanno andando le cose”, rispondo “a maggior ragione chi ha un’opportunità per cambiarle queste cose ha il dovere di metterla in atto”.
Con la complicità di Luca di cui Borghesi si fida ciecamente riesco ad avere questa rara opportunità.
Lo ammetto sono molto emozionata.
La sua prima immagine:
La sua prima frase:
“Mi piacerebbe Signora Catia che mi spiegasse come siamo arrivati ad avere camerieri con la peluria sul collo, con la ricrescita della barba o con la divisa non perfettamente in forma? Sa che io ai miei ragazzi se facevano il doppio turno la barba la facevo fare anche il pomeriggio?”
Abbozzo un “veramente io sono venuta per capirlo insieme”.
Ci sediamo tutti e tre nel meraviglioso giardino d’inverno, caffè e coccole varie fanno da supporto.
Sono sempre stata una grande appassionata del linguaggio del corpo, tra loro due c’è apertura, fiducia, rispetto, confronto e soprattutto un “sano affetto”.
(Le domande rivolte a Costanzi saranno all’inizio siglate con C. quelle a Borghese con B.)
C.: La prima domanda è di rito:
Come hai fatto? Non sei stato colto dalla paura di non farcela?
Ho sempre visto l’apporto del Sig.Borghesi come un grande potenziale da cui partire, la chiave giusta credo sia stata data dall’equilibrio, negli ultimi anni in cui lui era in carica non solo mi lasciava spazio per idee dal suo punto di vista “innovative”, ma ogni giorno era di una motivazione commovente che spero ogni persona almeno una volta nella vita possa ricevere, avvenuto poi il passaggio non ho ritenuto necessario marcare da subito il territorio per sete di identità, aggiungevo o variavo li dove fosse veramente necessario, al contrario ho nutrito e nutro profondo rispetto per il bagaglio che mi è stato consegnato e ancora oggi mi confronto sempre con il Sig.Barbieri e non perché devo farlo, ma perché lo desidero e lo trovo funzionale.
Vedi in questi giorni stiamo cambiando la moquette la scelta è stata valutata insieme.
La paura era tanta, ma hanno contribuito nella scelta la mia forte determinazione e la carica motivazionale che il Sig.Borghesi mi dava.
B.: Come ha capito che Luca era la persona giusta per sostituirla in questa sala?
L’ho capito subito, ne ho visti di ragazzi nella mia vita, ma con quella luce negli occhi al massimo ne ho visti tre, lui ha la passione viva per la sala, lui la sala l’ha scelta, dopo due mesi e mezzo che era qui l’ho fatto maître, lui sarà il discepolo che farà meglio del maestro.
C.:La tua formazione.
Direi un predestinato per di più figlio d’arte, ad 8 anni ho detto a mia madre “foglio fare l’alberghiero”,e così è stato, nessun dubbio tra sala e cucina, l’accoglienza era il mio essere, finita la scuola con varie esperienze estere mi sono guadagnato la qualifica di maître, ma io volevo entrare qui al Royal dove sapevo ci fosse il Sig.Borghesi, lui volevo fosse il mio maestro e così pur di essere preso accetto nel 2002 di entrare come chef de rang, dopo due mesi e mezzo appunto sono stato promosso a maître ed oggi sono qui in qualità di food e beveraggi manager dell’Hotel.
C.: Cosa ha guadagnato con te il Mirabelle e cosa ha perso?
Ha guadagnato un metodo di gestione più moderno anche solo semplicemente per il fatto che il Sig.Borghesi non era solito usare il computer, utilizziamo i social per la comunicazione, controlliamo le recensioni su internet per avere dei feedback continui, dal punto di vista amministrativo è tutto catalogato e standardizzato.Purtroppo ha perso il savoir faire del Sig.Borghesi, unico al mondo e il suo occhio critico in grado di cogliere ogni minimo dettaglio.
(non posso che dar ragione a questa ultima affermazione, nel solo tempo dell’intervista il Sig.Borghesi nota un ragazzo che versa l’acqua con un movimento non perfettamente pulito, una tazzina da caffè ritirata con un leggero sonoro che comunque da manuale non si dovrebbe sentire, una cameriera in lontananza che sta posando le composizioni floreali sul tavolo senza averle asciugate bene sotto; e la cosa che ho maggiormente apprezzato è stata il suo non entrare in campo direttamente sovrastando la figura di Luca, ma riportargli semplicemente il fatto con estrema complicità tenendosi lui da parte.
In un periodo in cui si è tutti amici e fratelli e poi ci si pugnala alle spalle per essere i più fichi del bigonzo un rispetto così coerente colpisce!!!).
B.: Lei è la storia dell’alto servizio in Italia, per molti un’istituzione mi racconta l’evoluzione del servizio di sala che Lei ha vissuto.
Sono nato nel 34, il primo servizio che ho incontrato è stato quello di corte, del palazzo Brufani a Perugia per esattezza, mia nonna con la quale sono cresciuto a causa della guerra, era prima dama di compagnia e capo governante del palazzo, grazie a lei partecipavo a rituali del the con la principessa Ruspoli, indossavo la calza bianca, i pantaloncini di jersey, la scarpa con il cinturino e il grande fiocco al collo. Abbiamo ricevuto molta della nobiltà del tempo, abbiamo ricevuto perfino il Duce. Allora era il cuoco ad allestire il banchetto, 20 cuochi a montare un buffet, l’errore non era proprio paventato. I fagiani come i salmoni venivano tranciati in sala, tutte cose che io ci ho tenuto a riportare al Sans Souci. Tutto si svolgeva sotto un rigore ferreo. Ho conosciuto tutte le regole del bon ton e dell’accoglienza, ho annusato sin da piccolo il lusso e ne sono poi diventato amante per tutta la vita. Non erano servizi di sala ma danze armoniose.
A 17 anni la mia prima esperienza lavorativa all’ Hotel Duomo di Milano, anche qui tutto era maestoso, puntuale, continuavo a vedere cose che mi appassionavano e iniziai a percepire l’importanza della disciplina lavorativa.Successivamente ho avuto una parentesi artistica come attore, poi il mio stesso procuratore saltato uno spettacolo mi portò con se per l’apertura di un locale: il Le Roy dal 1956 al 60 ero il più giovane direttore d’Italia. Iniziai a ricevere in prima persona famiglie come gli Augusta, I Peroni, i Masseroni. Non ero ancora ottimamente preparato sul servizio, ma avevo la fortuna di avere camerieri qualificati, erano gli anni dopo la guerra, di rinascita, di passione nel voler costruire. Le scuole di sala istruivano dei veri professionisti.
Poi L’Olimpia un ristorante di 500 persone “trasformammo un teatro in un ristorante-musical, era fatto come un lido di Parigi”. Questa fu un locale troppo innovativo anche per la piazza di Milano.
Dopo diverse esperienze sentivo di essere pronto per coronare il sogno di avere un locale tutto mio a Roma.
Il momento giusto arriva nel 1965, con un locale all’epoca di proprietà di Victor Tombolini, storico fondatore del Victor e del Cafè de Paris. Con l’aiuto di tanti amici, su tutti lo scenografo Giulio Cabras, riesco a coronare il mio sogno e il 3 settembre di quell’anno, con una grande festa cui partecipa tutto il” bel mondo”, apro il Sans Souci, un ristorante con uno staff di 36 persone.
Io mi sono sempre ispirato alla Francia per lo stile, di nostro aggiungevo il calore che ci contraddistingue.
Prendevo ragazzi giovani e li formavo in tutto e per tutto, da come farsi la barba alla gestualità. Pretendevo moltissimo ed ero intransigente su molte cose, non c’era amicizia con il mio personale, malgrado per me non siano mai stati “camerieri”, ma i “miei ragazzi”, c’era rispetto e gratitudine reciproca e devo dire ha funzionato molto bene.
Nel 2000 accetto ben volentieri questa ultima scommessa qui al Mirabelle.
Da patron torno a essere dipendente, ma c’è stata sin da subito una bella intesa con il proprietario, dottor Naldi ho portato in questa sala il sunto delle mie conoscenze, ho vissuto questa esperienza con la serenità di chi il lavoro può goderselo.
Di quest’ultima epoca mi piace molto come sia evoluta in positivo la figura del sommelier, come sia riuscita a crearsi un’identità strutturata unita ad una professionalità data dallo studio specifico della materia.
Ho sposato il mio lavoro e fino all’ultimo giorno gli sarò fedele, ma oggi faccio difficoltà a riconoscermi, non è cambiata la sala, è cambiato il modo di fare ristorazione, di intendere l’eccellenza, di valutare una sala, di percepire la professionalità.
Per fortuna che ci sono i clienti, la loro centralità nel mio pensiero mi ha permesso di andare avanti dando il meglio.
B.: Riguardo i riconoscimenti, Le Sans Souci è stato, in anni in cui erano veramente rare e difficilissimo ottenerle, uno dei primi locali a Roma ad avere la stella, cosa voleva dire allora avere questo genere di riconoscimento?
Cosa ha significato poi per Lei perderla?
Il Sans Sauci è vissuto 35 anni. 35 anni di attività florida, con una clientela splendida e un ritorno economico importante, di questi 9 sono stati con la stella. La stella non mi ha mai portato e non mi ha tolto, ai tempi non era come oggi non si sapevano molte cose, sapevo che fosse un riconoscimento raro, ma non gli davo più di tanto peso “i miei clienti sono sempre stati le mie stelle”. L’anno in cui la persi lo venni a sapere per caso qualche giorno dopo, provai una sofferenza, non per il fatto di per se, ma perché qualcosa non era andato nel mio locale e io non sapevo cosa, io non ero stato in grado di vedere il problema, ne di risolverlo e quindi volevo assolutamente sapere cosa fosse successo. Scrissi per avere spiegazioni, non mi risposero e così mi recai alla sede e rimasi li tre giorni in attesa di essere ricevuto, capirono che non me ne sarei andato facilmente e così mi ricevettero, pretesi la lettura della scheda della visita.
Un soufflé al cioccolato non perfettamente cotto era il mio dazio. Se vuoi giocare al gioco della critica le critiche vanno per prima cosa accettate, poi analizzate e risolte, diversamente sei solo in cerca di conferme.
Era giusto, lo ricordavo, era la prima sera con il forno nuovo, lo chef non ci aveva preso perfettamente la mano, ma lei capisce perché oggi io non mi riconosco più?
C.: Oggi il Mirabelle non ha la stella, ti chiedi Luca perchè? Qual è oggi il vostro atteggiamento riguardo riconoscimenti, recensioni, articoli?
Per un po’ me lo sono chiesto, poi ho seguito il pensiero del signor Borghesi: essere il massimo per i nostri clienti. Cerco ogni giorno di avere dei feedback da loro, di metterli a proprio agio anche nel voler esprimere una critica. Per scelta aziendale non siamo una struttura “social” sempre presente in manifestazioni, fiere, dibattiti su fb, noi preferiamo rimanere qui sotto i riflettori delle persone che ci scelgono. Per questo motivo ad esempio leggo e analizzo le recensioni su tripadvisor, quella è la voce del nostro cliente, quindi ognuna viene presa in considerazione e analizzata.
C.B.: Il servizio di sala attivo esempio quello del Sans Souci tornerà ad essere presente nelle nostre tavole?
B.: No assolutamente non tornerà, la gente lo desidera, noi lo capiamo qui, facciamo pochissime cose, ma il cliente se ne innamora, purtroppo fare quel tipo di servizio presuppone una grande professionalità, dove li trovo camerieri che sanno tranciare in sala un fagiano? Ad oggi con le scuole che abbiamo è da escludere.
C.: Secondo me tornerà, in una forma alleggerita perché purtroppo concordo con il Sig. Borghesi sulla difficoltà di trovare risorse umane in grado di farlo, ma tornerà una sala più attiva e poi magari da li un entusiasmo ritrovato magari porterà anche ad un nuovo approfondimento di tecniche.
C.: Che pensi delle scuole alberghiere?
Che il loro metodo non sta generando dei professionisti, questi ragazzi arrivano e molte volte sono totalmente impreparati e ancora non sanno nemmeno se la sala o la cucina è la loro scelta. Il nuovo modulo crea dubbio e da un’infarinatura generale poco funzionale.
Il vecchio modulo, quello che io ho fatto, dove a 14 anni si sceglieva tra sala e cucina permetteva al ragazzo di avere più tempo per acquisire specifici strumenti di settore.
É giusto che chi fa sala sappia gli elementi base della cucina, ma non è giusto che per sapere di cucina non sappia fare le proprie cose di sala.
C.: Ci sono ulteriori errori che noti?
Il messaggio. A forza di fare show ci ritroviamo ragazzi che fanno fatica a capire che devono pulire i bicchieri o portare i piatti, come se si svegliassero da un sogno per entrare in un incubo. Bisogna raccontare gli enormi sacrifici, le rinunce, i dolori alle gambe, la stanchezza, le poche ore di sonno, poi si per carità sei ripagato da grandi soddisfazioni, ma va detto che non ci può essere uno senza l’altro.
C.:Requisito indispensabile per un’ottima sala?
L’organizzazione.
C..Il Mirabelle si caratterizza per?
L’accoglienza. Un’accoglienza che trasmette calore. Mettere a proprio agio il cliente, fargli capire che noi stiamo li a disposizione per fargli vivere una splendida esperienza, coccolarlo fino all’ultimo, mettersi a disposizione per ogni eventuale richiesta, il tutto senza forzature, ma con un credo che parte da dentro.
B.:Stessa domanda: il Mirabelle si caratterizza per?
Sono assolutamente d’accordo, per l’accoglienza. Far capire che non si entra in una mangiatoia, nemmeno in una mangiatoia di lusso, ma in una casa. Il cliente non deve solo sentirsi coccolato, deve sentirsi protetto come a casa propria. Quando si aprono le porte dell’ascensore c’e sempre una persona pronta ad accogliere, nemmeno 1 secondo il cliente deve avere la sensazione dello smarrimento, quella è la sua prima sensazione verso di noi e deve essere impeccabile. Per tale ragione, la persona che accoglie deve essere curatissima, con una camicia perfettamente inamidata, un abito su misura, le scarpe tirate a lucido, la postura retta, la pelle profumata, inoltre deve avere garbo e naturalezza dei movimenti. Non si deve aver paura di far trasparire che il posto è importante, ma è fondamentale al contempo trasmettere che in un posto importante ci si può sentire come a casa propria.
B.: Cosa non tollera?
La trascuratezza. Di aspetto, di mente e di corpo.
B.: L’eleganza di sala è?
La discrezione. Stare sempre un passo indietro, che non vuol dire non aver confidenza con il tavolo, ma vuol dire relazionarsi ricordando il proprio ruolo. Ci sono dei patron/maître che sembra che ti facciano la grazia a servirti, altri che trattano il cliente al secondo incontro come il loro compagno di merende. Da noi vige ancora la regola “il cliente ha sempre ragione” e per far valere questa regola nessuno dei due sopraelencati atteggiamenti può essere vincente. E se arriva il cliente maleducato arrogante, non viene trattato con arroganza, ma con distanza e comunque il lavoro viene portato a termine nel migliore dei modi, poi quando viene gentilmente accompagnato alla porta, si fa notare, sempre con estremo garbo che non è nostro ospite gradito a meno di un diverso comportamento. Io ho sempre preteso molto dai miei ragazzi, ma non ho mai permesso a nessuno di mancargli di rispetto, che fossero politici, attori o quel che più si voglia.
(Interviene Luca per dire “posso assolutamente confermare il Sig.Borghesi ci ha sempre tutelato senza guardare in faccia nessuno”)
C.: L’eleganza di sala è?
L’atmosfera. Un’atmosfera data da una cura estrema per il dettaglio. Un’atmosfera che non puoi dimenticare. Ricordo sempre con piacere una frase di Giorgio Armani “l’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare”. Anche una semplice cravatta ogni maître può averla, ma in quanti sanno portarla?
C.: Prima mi hai parlato di un servizio che trasmette calore eppure visto da fuori tutto sembra essere più vicino alla perfezione asettica delle grandi tavole francesi che al “top friendly service”, come trasformate l’apparenza nella realtà che descrivi?
Con l’apporto umano, come ha prima detto il Sig.Borghesi non si deve aver paura di far trasparire che il posto è importante, ma è fondamentale al contempo trasmettere che in un posto importante ci si può sentire come a casa propria.
Noi cerchiamo di trasmettere alta professionalità, di essere sempre pronti, ma stiamo ben attenti a non essere invasivi, facciamo capire che noi possiamo esserci sempre sul tavolo come non esserci mai. La stessa spiegazione del piatto varia da cliente e cliente, se avverti che lo stesso non gradisce a malapena lo annunci, diversamente se capiamo che è un appassionato ci prolunghiamo nei particolari.
B: In apertura del nostro incontro mi ha fatto un’osservazione, è cosa nota la sua inflessibilità riguardo l’aspetto di presentazione del cameriere, come arriva a formarli da questo punto di vista.
Vede Catia un cameriere ordinato non è una mia fissazione, ma una reale necessità per dare valore alla propria persona, a chi ti da lavoro e al cliente che servi.
È indipendente dal tipo di luoghi in cui operi, certo più si sale più si è intransigenti, ma anche in una pizzeria è importante che il cliente percepisca la cura personale con cui la persona si è presentata al lavoro e percepisca dal passo la passione per ciò che fa e non la svogliatezza di chi deve portare lo stipendio a casa. Se tu sei impeccabile il cliente non può che sentirsi lusingato perché tu ti presenti così anche per rendere speciale il suo momento. Quando i camerieri arrivano qua, fanno corsi sulla postura e sull’andamento, se per loro è inevitabile camminare a papera e con le spalle chiuse io li mando a casa e spiego che sicuramente possono trovare lavoro altrove, ma che sicuro questo non è il giusto mestiere per loro.Devono parlare assolutamente un corretto italiano, io capisco l’appartenenza alla propria città, ma le inflessioni dialettali vanno contenute. Non è per snobberia, non è per eleganza, ma è per il buon gusto delle relazioni umane. L’assenza del buon gusto porta ad un impoverimento intellettivo di tutto; delle buone maniere, della forma come dei contenuti. Una volta malgrado la fame, la guerra, i disagi, le difficoltà quotidiane di vita per cui anche lavare la divisa o avere scarpe lucide poteva divenire un’impresa i camerieri erano molto più attenti, desideravano essere inappuntabili, erano fieri della loro essere a servizio.
Il mordente era diverso.
Ieri io, oggi Luca, cerchiamo di dare il buon esempio, facciamo corsi continui a riguardo e ogni santo giorno un briefing per vedere tutto dal capello al laccio della scarpa.
C: Un pensiero di saluto:
Il cameriere è un professionista, come tale va formato e rispettato.
B: Un pensiero anche per Lei di saluto:
Recuperiamo il buon gusto.
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