di Giulia Gavagnin
Il premio annuale “Antica Corte Pallavicina” tenutosi nell’omonima maison a Polesine Parmense il 28 agosto non è stato solo teatro di una splendida serata conviviale e di qualche commovente amarcord. La famiglia Spigaroli, titolare dell’omonimo ristorante stellato Michelin e della relativa azienda agricola, ha insignito di uno speciale premio alla carriera una triade di ristoratori d’eccezione: Gianfranco e Bruna Bolognesi de La Frasca di Castrocaro Terme, Ezio e Renata Santin de L’antica osteria del Ponte”di Cassinetta di Lugagnano e Aimo e Nadia Moroni de Il luogo di Aimo e Nadia di Milano.
Sette stelle per tre ristoranti che hanno fatto la storia della cucina italiana. Da questo palcoscenico tutti e tre i patron hanno lanciato il loro “j’accuse” contro la cucina italiana contemporanea, rea di non saper interpretare in chiave moderna una tradizione pluricentenaria che ci ha resi famosi nel mondo.
Le voci di questi grandi patriarchi dei fornelli si aggiungono in qualche modo ai dubbi e alla perplessità espressi recentemente da Davide Paolini nel suo libro “Il crepuscolo degli Chef”, da Fulvio Pierangelini in un paio di lezioni tenute recentemente presso alcuni master di cucina e da Edoardo Raspelli in un’intervista fresca di stampa.
In estrema sintesi: abbiamo le materie prime migliori del mondo ma ci stiamo snaturando tra alici del Cantabrico e schiumette. Raspelli, notoriamente non un grande ammiratore di Ferran Adrià e dei suoi eredi, ha persino affermato che “oggi mangi una sceneggiatura, la sceneggiata del gastrocazzeggio”.
Nel corso della premiazione, se i toni di Bolognesi e Santin sono stati decisamente edulcorati (“bisogna valorizzare la materia prima che abbiamo, non modificarla con spume” – “non bisogna trascurare la memoria, se i culatelli della famiglia Spigaroli sono prenotati nei migliori ristoranti del mondo, un motivo ci sarà”), il grande cantastorie di piatti e di vita Aimo Moroni non ha utilizzato mezzi termini fin dall’esordio del suo discorso: “quando leggo cotoletta ‘rivista o rivisitata da me’ mi vengono i brividi”.
Moroni ha raccontato del suo arrivo a Milano subito dopo la guerra, nel 1946, in una realtà molto diversa da quella attuale. Aveva solo 12 anni e già lavorava come lavapiatti, facendo l’ambulante la domenica per guadagnarsi la pagnotta, nel vero senso della parola: “il pane era un lusso, il companatico allora era quasi sempre la polenta”.
Ha rubato l’arte culinaria alla madre, cuoca sopraffina, e ha scoperto che l’Italia offriva una varietà e una qualità di prodotti unici al mondo. Dice che questa consapevolezza manca a molti cuochi di oggi.
“Difendiamo l’Italia l’ho detto prima io di Salvini”, scherza. Ma neanche tanto. “Vi sembra possibile che a Milano non riesca a trovare più un risotto alla milanese “alla Bomballi” ma nemmeno un vermicello con pomodoro, olio e basilico, che è la nostra bandiera e fa bene alla salute? In compenso ci sono duecento ristoranti etnici, e non sono di certo razzista!”.
Riferisce poi un aneddoto: “una volta mi hanno proposto il risotto alla milanese col nocino: ma il risotto o è alla milanese o è con il nocino. Mettere il nocino nel risotto allo zafferano è come mettere i baffi alla Gioconda!”. In questo aut-aut, Aimo esprime un concetto che più di qualche toque ha illustrato: non si può innovare senza tenere conto della tradizione. E troppo spesso le cucine italiane, anche stellate, sono accozzaglie di culture, tecniche, cromatismi, che vorrebbero esprimere la personalità del cuoco senza segnare una direzione precisa.
Come dire, costruire una casa senza le fondamenta. Aimo li definisce senza mezzi termini “intrugli”, prodotti deleteri di “Masterchef” e ricorda con commozione una cena per duecento persone organizzata all’ultimo momento su commissione di Francis Coppola al St. Regis di San Francisco. “Ho presentato i miei piatti poveri, fatti di ingredienti semplici: la pappa al pomodoro e i vermicelli Cavalieri al cipollotto di Tropea. Ho avuto una standing-ovation sulle note di Verdi e di Puccini. Mi sono commosso. Il giorno dopo una giornalista mi ha lasciato una poesia di Kipling che dice “fortunato quell’uomo che riesce ancora a piangere”.
Le parole di un patriarca lasciano spesso indifferenti i giovani, che giustamente devono seguire la propria strada e creare una loro contemporaneità. Non sappiamo, tuttavia, se vi siano giovani cuochi italiani che abbiano strappato gli applausi di un vasto pubblico d’elite grazie all’utilizzo di prodotti italiani al 100%.
Fare un passo indietro potrebbe essere la strada giusta, come preconizzato da Paul Bocuse più di vent’anni fa: “l’egemonia della cucina francese durerà sino a quando gli chef italiani capiranno l’enorme patrimonio che hanno a disposizione, sia per quanto riguarda le materie prime che per il ricco patrimonio di tradizioni”.
Sicuramente, Aimo Moroni è dello stesso avviso.
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