I VINI DEL CAVALIERE
Uva: aglianico
Fascia di prezzo: da 5 a 10 euro
Fermentazione e maturazione: acciaio e legno
Dopo oltre un anno tocca a me ripassare questo vino durante una, sempre breve per i miei gusti, sosta nel Cilento. A parte la conferma di quanto scritto da Diodato, ho trovato un rosso dai sentori intensi e persistenti di frutta rossa appena cesellata dalla speziatira, in bocca spiccata freschezza ancora molto viva e caratterizzante. Quasi come se il vino, invece di stare fermo un anno e mezzo nella mia cantina, fosse stato appena messo da poco in bottiglia. Fa capolino sicuramente l’annata leggermente magra, una struttura non debole ma sicuramente meno forte a quella a cui siamo abituati, ma alcol e tannini coprono bene il percorso in bocca regalando alla fine un finale caldo e pulito, abbastanza persistente. Un ottimo prodotto, di grande rapporto fra qualità e prezzo secondo una linea a cui questa azienda dalle solide radici agricole ci ha ormai abituati da tempo.
Assaggio del 6 gennaio 2007. Ho scelto di parlare di questo vino perché mi è capitato un episodio particolare “di vino”. Andiamo per ordine. La cantina che lo produce è l’Azienda Cuomo – I Vini del Cavaliere di Capaccio Paestum, l’unica del comune dei famosi templi greci. Qui si producono 25.000 bottiglie all’anno tra vini cilentani e qualche beneventano. L’enologo è il bravo Sergio Romano. Tutto è a carattere familiare. In prima linea troviamo Giovanni Cuomo, uno dei nipoti del “Cavaliere” che negli anni ’60, proveniente da Pompei, acquistò quest’azienda che è dedita soprattutto alla coltivazione di ortaggi. Giovanni è una persona che si è sempre distinta per le sue buone maniere, l’umiltà e la signorilità. Pochi giorni fa mi ha chiamato per chiedermi, senza specificarne il motivo, di degustare un vino insieme a lui, perché voleva conoscerne il mio parere schietto e franco. Ed ecco che una sera nella “mia” ormai famosa cantina dell’Esplanade di Paestum, abbiamo aperto una bottiglia del suo Aglianico Cilento Doc del 2006. «Diodato» – mi ha detto – «dimmi, come sempre fai, cosa pensi di questo vino, poi ti spiego il perché». Ebbene, francamente mi sono concentrato per poter esprimere al meglio la mia opinione. Alla vista il vino non esprimeva nessun difetto, era di un bel rosso rubino invitante. Al naso, tutto era nella norma, profumi non troppo invadenti e un legno ben dosato non esprimevano sentori anomali. Diciamo che già all’olfatto mi sono trovato di fronte a un vino corretto che valeva ampiamente il suo prezzo di commercializzazione (circa 6 euro in enoteca). Al gusto, invece, era leggermente al di sopra della norma dove si evidenziava una lunga persistenza, un bel corpo e una buona piacevolezza. Il vino era pronto, ripeto, corretto, che confrontato tra quelli simili diceva tranquillamente la sua senza sfigurare. A questo punto, dopo aver fatto questa descrizione, Giovanni rideva con gli occhi e così gli ho chiesto il motivo di questa degustazione. Ebbene, era accaduto che un suo cliente/amico del Basso Cilento aveva acquistato questo vino per un neo ristoratore nostrano che in passato aveva avuto delle esperienze in Germania e insieme avevano giudicato il prodotto imbevibile, cioè con testuali parole “Nun se pote veve”. Allora, continuo a dire che l’ignoranza enologica e gastronomica nelle nostre zone è ancora molto diffusa. Giudicare questo vino con queste parole è semplicemente da incompetenti. È vero, l’Aglianico del “Cavaliere” non è un vino che merita altissime onorificenze e menzioni, ma nella sua semplicità è un vino senza pretese, schietto, corretto e che bevendolo si sente tanto il nostro territorio. La gradazione alcolica è di 13 gradi. Io lo berrei volentieri con i nostri primi della domenica: fusilli, cavatelli, ravioli, oppure con una bracioletta al sugo.
Questa scheda è di Diodato Buonora
http://diodatobuonora.blog.tiscali.it
Sede a Capaccio-Paestum, via Feudo 12. Tel. 0828.725376 www.vinicuomo.com. Enologo: Sergio Romano. Ettari: 4 di proprietà. Bottiglie prodotte: 30.000. Vitigni: aglianico, fiano, falanghina.
Ps: tra le diverse forme di idiozia antropologica che sto catalogando e che spiegano anche in parte la deresponsabilizzazione collettiva che ha condotto all’emergenza rifiuti in corso a Napoli e Caserta, questa è tipica di chi, per mostrarsi esperto e far capire di essere uomo di mondo per aver girato, disprezza a prescindere ogni prodotto di promiscuità territoriale. Una forma emblematica, oltre che di ignoranza come scrive bene Diodato, anche di provincialismo e forte complesso di inferiorità. Le radici di questo atteggiamento sono nella nascita del mercato nazionale dei prodotti dell’agroalimentare negli anni ’60, quando per un cibo o una bevanda essere conosciuto era sinonimo di essere più buono. Questa devianza può diventare anche professionale, non è raro incontrare ancora oggi, per restare al vino, persone che sanno di tutto sulla Francia e nulla sul territorio dove sono nati. Oppure può essere alimentata per interesse, per esempio da chi vende solo prodotti di fuori. In questo caso non è detto che il soggetto non conosca il valore di quel che mostra di disprezzare. Famoso il caso di un venditore di vino che disse: <Accà sapimm fa solo e’ pummarole>. Tradotto in spottistica, potremmo dire: <Come puzzano queste alici fresche, la Findus sì che sa lavorare il pesce!>. Nulla contro la Findus, ma preferisco le alici, magari di menaica. Cosa c’entrano i rifiuti? Beh, se non si rispetta la produzione del posto dove si è nati tanto vale lasciarlo sporco o votare persone che non si pongono il problema.
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